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Attraverso le foto di Alessandra Bagnoli, che ritrae i capolavori del nostro Paese, il Corriere dello Spettacolo vi augura Buone Feste!


Dal grande schermo a teatro: "Harry, Sally ed io", una rivisitazione moderna della commedia americana del 1989. Di Flavia Severin

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Teatro Cometa Off, Via Luca della Robbia 47, Roma. Martedì, 22 Dicembre 2015

La giovane regista Vittoria Citerni di Siena si ispira alla commedia romantica americana del 1989 “Harry ti presento Sally”, e ne porta in scena una rivisitazione sia della trama che dei personaggi. Restano però l’amore e i rapporti di coppia e di amicizia uomo-donna come temi principali.

Nora, la regista del film “Harry ti presento Sally” perde il suo potere di burattinaia e diventa lei stessa una giocatrice ritrovandosi in campo quasi inconsapevolmente, mentre i suoi sentimenti vengono messi a dura prova sul palcoscenico. E’infatti a effetto matrioska, con la tecnica del metateatro, cioè del teatro nel teatro,che si aggiungono due personaggi rispetto al film: non più solo Harry e Sally, ma anche la stessa Norae il suo co-autore e aiuto regia Bruno. E’ proprio a causa di quest’ultimo, che la regista è costretta a rivedere e a lavorare con il suo ex, per cui è rimasta decisamente scottata in passato. Si parla di Giorgio Volpe, in arte Gio Fox che dovrà interpretare la parte di Harry. Quando Nora lo scoprerimane scioccata dalla scelta di Bruno, ma si rassegna all’idea e cerca a contenere il suo risentimento verso Gio, in quanto consapevole delle sue capacità di attore. 

Nonostante però la donna cerchi disperatamente di nascondere la sua gelosia e il suo ancora forte sentimento per l’ex, si aggiunge il colpo di fulmine tra Gio e l’attrice che interpreta Sally. Nora tenta in tutti i modi di ostacolare questo amore nascente, chiedendo aiuto a Bruno. Da qui si creeranno situazioni ambigue e divertenti che aiuteranno paradossalmente a sciogliere i misteri e i segreti e a svelare la verità…

Nella commedia si sottolinea che non esiste amicizia tra uomo e donna, ma sarà davvero così? Cosa succederà ai quattro protagonisti? La giovane regista ha voluto,però, dare un tocco di inaspettata novità alla commedia americana, portando dentro alla rappresentazione scenica la regista stessa del film, facendole perdere il controllo di colei che gestisce gli altri, e che per una volta, per questa volta, si ritrova a non poter più supervisionare dall’alto, ma ad essere allo stesso livello dei suoi attori, a dover far conto con i propri sentimenti, passati e presenti.
L’idea è che Nora debba affrontare ciò che prova, proprio come i personaggi che lei stessa ha creato. La regista diventa umanamente quasi uno di noi spettatori, costretta a vedere il suo ex, ancora stabile nel suo cuore affranto, flirtare con un'altra davanti a lei, provando a ostacolarlo, usando tutti i mezzi in suo potere.Ciò che all’inizio è auto negazione del suo sentimento, inaridimento e convinzione che l’amicizia tra i uomo e donna non possa esistere, in quanto il sesso rovina le cose, si evolve e si converte durante lo spettacolo. 

Dall’inizio, step by step, Nora cresce, e il pubblico, sempre più in empatia con lei, la vede umanizzarsi, la vediamo entrare in contatto con i suoi sentimenti, la vediamo liberarsi dalle sue paure, lasciarsi andare senza vergogne né remore.
In questa climaxascendente, in questa evoluzione dei personaggi e colpi di scena, tra scene comiche e divertenti, la regista Vittoria Citerni di Siena ci regala una serata piacevole e all’insegna della spensieratezza e della riscoperta di un vecchio film, rispolverato e rinnovato.

Flavia Severin


In scena dal 22 dicembre 2015 ore 21,00 a domenica 3 gennaio 2016 ore 18,00.
Al Teatro Cometa Off
Via Luca della Robbia 47 Roma

Associazione Culturale La Pietra di Luna
Da un'idea di Vittoria Citerni di Siena e Nicolò Mazza de' Piccioli scritto da Nicolò Mazza de' Piccioli
Attori
Sally: Fabiana Bruno
Harry:Mattia Bartoli
Nora:Giulia Chiaramonte
Bruno:Stefano de Santis

Regia di Vittoria Citerni di Siena.

Aiuto Regia: Nicolò Mazza de' Piccioli
Assistente di Produzione: Sara Mignogna
Stage Manager: Daniele Giannetti
Scenografia: Samantha Giova
Costumi: Margherita di Domenica
Trucco: Marianella Garcia e Cinzia Carboni
Casting Assistant: Francesca Nappi
Tesoreria: Caterina Pallaro

Amministrazione: Giampietro Maria Teodori.

“M’accompagno da me”: risate e riflessioni per uno spettacolo imperdibile

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Teatro 7 (Via Benevento 23), Roma. Dal 22 Dicembre al 7 Gennaio 2016

“M’accompagno da me”, che vede come protagonista l’attore Michele La Ginestra, e come regista Roberto Ciufoli, è uno spettacolo comico, ma al contempo pieno di dettagli ricercati e arricchimenti che a volte divertono nel loro sarcasmo, a volte commuovono nella loro estrema sensibilità e profondità.

La scenografia è quella di un carcere, ci sono delle sbarre e quattro detenuti interpretati da Andrea Perrozzi, Gabriele Carbotti, Ludovica Di Donato e Alberta Ciprianiche aiutano a scandirea suon di musica e a passi di danza intervallando gli interventi degli otto personaggi, che incarna Michele La Ginestra, travestendosi ogni volta in modo diverso.

Ognuno di questi interventi ha lo scopo di portare in scena una storia personale, un dramma intimo da confessare al pubblico, un modo per aprirsi ed espiare le proprie colpe, trovandopoi un nuovo inizio e una nuova pace interiore.

Vediamo susseguirsi in una passerella di emozioni e altalenarsi di sentimenti spesso contrastanti: un avvocato difensore che usa tutte le sue capacità di oratore e di persuasore, per convincere la giuria dell’innocenza del suo assistito; un ladruncolo che cerca di giustificare le sue malefatte;personaggi delle favole, come Biancaneve e Cappuccetto Rosso chespezzano un po’ la situazione di tensione e rallegrano l’atmosfera facendo scoppiare risate sincere e spensierate;una signora molto sui generis con un figlio molto pericoloso nel passeggino; un writerun po’ fuori dal mondo;e il molto noto, grazie al programma televisivo Colorado,Don Michele. Infine e non per il suo reale ordine di apparizione, ma per la sua intensità e commozione che provoca, c’è anche il personaggio di un bambino che deve ancora nascere e che in modo straziante e accorato grida il suo dolore e la sua angoscia, mentre rischia di non venir mai al mondo. Momenti estremamente intensi e di riflessione su un tema come l’aborto spesso considerato troppo superficialmente.

I quattro reclusi invece, in prigione per motivi diversi, non intuibili però dalla commedia, hanno apparentemente solo una cosa in comune: sono vittime, infatti,di una giustizia sleale che li ha condannati nonostante fossero innocenti (a detta loro). L’alternanza degli stacchetti musicali, in cui le loro voci potenti e perfettamente incastrate, creano un amalgamarsi di musiche che cullano quasi ogni singolo ingresso di ogni nuovo personaggio.

Dall’inizio impegnato dei versi di Storia Nostradi Cesare Pascarella, un finale altrettanto raffinato in rima, degno di uno spettacolo piacevole e sofisticato che con uno spirito leggero ed umoristico, spinge però al meditare sui valori della vita. E come si suol dire Scherzando si dice sempre la verità, ma senza prendersi troppo sul serio, e questo aiuta il pubblico a sedimentare gli stimoli dello spettacolo in modo naturale ed empatico.

One man show che regala risate, commozione e… una morale finale come nelle favole.

Flavia Severin


con: Andrea Perrozzi, Gabriele Carbotti, Ludovica Di Donato, Alberta Cipriani


Collaborazione ai testi: Alessandro Prugnola, Salvatore Ferraro, Adriano Bennicelli e Roberto Ciufoli
Disegno luci: Francesco Mischitelli
Costumi: Martina Cristofari
Musiche originali:: Andrea Perrozzi e Salvatore Ferraro
Arrangiamenti musicali: Andrea Perrozzi e Davide Spurio
Organizzazione: Alessandro Prugnola
Distribuzione: PigrecoDelta
Regia: Roberto Ciufoli

THE BEST(IA) OF RIVERA! Menestrello di amarezze. Di Paolo Leone

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Roma, Sala Uno Teatro (Piazza di Porta San Giovanni 10). Fino al 10 gennaio 2016

Torna in teatro (quel luogo con il quale non si fa un soldo) Andrea Rivera con il suo nuovo spettacolo non spettacolo. Eh si, perché lui ama improvvisare, coinvolgere il pubblico, più o meno reattivo a secondo delle serate o a secondo che ci sia o meno. Il dramma dell’attore (di quasi tutti), che si sbatte a raccontare le sue verità alla sua maniera e che deve  combattere l’impari guerra contro la televisione, dove diventi una star che pochi poi seguono dal vivo. Scherzi a parte (mica tanto), Andrea Rivera, moderno esponente dell’antica arte del cantastorie, con la sua ironia e satira a cui siamo poco abituati, anestetizzati ormai dall’ovvio, dal facile, è in scena alla Sala Uno Teatro di Roma, a due passi dalla Basilica di San Giovanni fino al 10 gennaio 2016. In tempi di allarmismi e allarmati, all’entrata siamo quindi accolti da un improbabile controllore vestito con la mimetica e con una cartuccera a tracolla e dotato di un togli peluchi elettrico che ci scansiona i vestiti e quando si entra uno alla volta nella bella platea, i belati di un gregge di pecore (guarda caso) ci accompagna fino alle poltrone. Inizia uno strano show, con toni confidenziali, dove Andrea, con l’ausilio di filmati, inizia a mettere alla berlina il dominio assoluto dei cellulari, padroni ormai delle nostre vite, con le sue gag surreali farcite di giochi di parole. E via via, tanti aspetti della nostra quotidianità vengono affrontati, smontati, ridicolizzati, anagrammati. Dalla ricerca d’amore tramite annunci sui giornali, alla situazione della cultura in Italia, della sanità, con le sue incursioni tra le poltrone in cui, apriti cielo, balena la luce di un cellulare, e con le sue canzoni (ce ne fossero di più sarebbe meglio) la panoramica sui disastri italiani si amplia fino a toccare l’amara fine della sinistra, le rivoluzioni “da tastiera” a colpi di “like”, una finta libertà in cui ci crogioliamo, zitti e “mutui”.Il suo è un cantico disilluso, dove tra una “inutile” schitarrata da street-art (“da lì vengo e lì tornerò”) sui nostri mali, si fa largo, pur con il sorriso, l’amarezza per l’oggi che viviamo. Forse l’unico modo per cambiare qualcosa sarebbe tornare indietro nel tempo, avvisare il bambino che eravamo, come fa lui parlando allo schermo (bellissima trovata) con il piccolo Andrea Rivera che gioca a pallone in un prato. Forse soltanto un ritorno al futuro potrebbe salvarci, chissà. Nel bis finale, immancabile l’omaggio a Roma e ai suoi quartieri, e all’indimenticato Remo Remotti, in compagnia della fedele cagnolina Pigna. Insolito, spiazzante, imprevedibile.

Paolo Leone


Roma, Sala Uno Teatro (Piazza di Porta San Giovanni 10) fino al 10 gennaio 2016.

La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello presenta:The Best(ia) of Rivera!, scritto e molto diretto da Andrea Rivera. Chitarre: Matteo D’Incà; Disegno luci e consigli utili: Hossein Taheri; Foto locandina e collaborazione ai testi: Manolo Bernardo; Attrice cagna: Pigna Rivera. Si ringrazia l’ufficio stampa della Compagnia: Valeria Buffoni.

“Gabriella Deodato”. Come scavare all’interno dell’anima attraverso la fotografia. Intervista di Stefano Duranti Poccetti

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Gabriella Deodato è una fotografa che ho avuto il piacere di conoscere non molto tempo fa a Roma. Da quella chiacchierata, nasce oggi la seguente intervista, a questa donna che utilizza la macchina fotografica come mezzo artistico per mettere in risalto le peculiarità dei suoi soggetti. Ascoltiamola…

Ciao Gabriella, per iniziare potresti brevemente parlarmi della tua formazione artistica?

Ciao Stefano. La prima risposta che mi verrebbe in mente è che per creare non c’è bisogno sempre di studiare, magari si studia per perfezionare una tecnica, ma il dare corpo ai propri Sogni è innato. Si può imparare a fotografare ma non si impara un’inquadratura, si può imparare Photoshop ma non si impara a creare. Comunque, io ho studiato a Parigi. Ho fatto una scuola di Fotografia, Icart Photo, e ho studiato dal 1999 al 2001, anno nel quale mi sono diplomata. È iniziato tutto per caso, perché in realtà mi ero iscritta alla Sorbonne per studiare lingue (logico proseguimento del mio aver fatto la scuola francese), ma mi annoiavo e allora ho iniziato ad andare in giro per la città fotografando. All’epoca fotografavo monumenti, poi è arrivata la mia predilezione odierna per la ritrattistica.
 
Che cosa significa per te fotografare?

Fotografare è tutta la mia vita. Significa esprimermi e potermi esprimere, significa (provare a) tirare fuori ciò che di più nascosto vedo e intravedo nella persona che ho di fronte. Per me fotografare è prima di tutto un esercizio psicologico e confidenziale: parlo molto con i miei soggetti, in modo da metterli a loro agio e da creare una fiducia. La mia massima aspirazione è che si confidino con me attraverso il mio obiettivo fotografico. È questo il mio… obiettivo!

C’è un servizio che hai fatto che ti è rimasto più impresso rispetto agli altri?

… Io fotografo volti noti e non; sicuramente i servizi che mi sono rimasti più impressi sono quelli fatti con Personaggi del calibro di Iva Zanicchi o Giorgio Albertazzi, per la loro grandezza artistica, ma anche quando fotografo persone “normali” in realtà tutti mi rimangono impressi, perché siamo tutti unici e ognuno di voi mi dona qualcosa. Ogni mio servizio fotografico è come creare una storia: studio una location, un mood, un qualcosa inerente a chi ho di fronte da raccontare… o meglio da (s)velare. Il mondo è location.
Ogni mia modella/o (intendo chi posa per me) è una persona ricca di sfumature ed imperfezioni, quindi inesauribile fonte di ricerca e fotografia. Tutti mi rimangono impressi, perché li vivo tutti in prima persona. Scatto finché non si riesce a tirare fuori ciò che avevo intravisto e che puntualmente appare, a volte anche malgrado il soggetto fotografato, che vuole nascondere certe fragilità (che a parer mio, specialmente nella donna, sono anche la sua ricchezza).

Lo standard di oggi è quello di cercare di tirare fuori a tutti i costi il lato più provocatorio della donna, anche in quei soggetti dove questo non è il lato preminente. Tu invece hai un’altra idea di fotografia, tu vuoi tirare fuori da ciascuno il suo lato più rappresentativo e non per forza questo deve essere quello provocatorio.

Questa tua domanda, alla quale senza volere ho già un po’ risposto nella precedente, deriva in effetti dalla nostra chiacchierata a Roma di qualche tempo fa. Sì, la provocazione ad ogni costo è secondo me molto stupida… siamo arrivati al punto che oggi, in questa società, è diventato l’essere fedeli o coperti la vera provocazione. Credo che la donna di oggi sia troppo standard, cioè voglia per forza assomigliare a qualcun altro e poco a sé stessa. Ognuna di noi ha i suoi punti di forza, nella persona e nella personalità, e secondo me si dovrebbe nutrire quelli, per poi arrivare ad un’età non più giovane senza il bisogno di ritoccare l’esterno se l’interno è solido. Io cerco di dialogare con chi ho di fronte, proponendo che l’Unicità di ognuno di noi risiede, nostro malgrado (e soprattutto) nelle nostre imperfezioni. Se si ha un corpo morbido per esempio, perché scoprirlo per forza rendendolo a volte volgare? Non è meglio un “vedo non vedo” che lascia solo intuite ciò cje  Femminilità nasconde? Spesso si pensa che provocare sia l’unica via per farsi vedere e sentire, quando invece un suggerire e/o un Silenzio sono forse più adatti ed invitanti.

Che cos’è per te la sensualità?

Sensualità è suggerire e mai svelare. Sensualità è aprire bocca ed essere interessanti, in modo che un uomo si accorga solo dopo della bellezza esteriore. Sensualità è esserci e non esserci al contempo, ma non come strategia, bensì come Modo di essere.

Di solito, al centro della tua attenzione fotografica sta l’essere umano. Sei un po’ una ritrattista, perché questo? Cosa cerchi dentro l’essere umano?

L’essere umano è sociologicamente molto interessante, ha mille sfaccettature. Lo “still life” (fotografare oggetti) mi è sempre interessato meno, a parte il primo periodo in cui fotografavo monumenti a Parigi. Fotografare oggetti risiede più nella tecnica, è davvero complicato e non ci puoi dialogare; Io invece adoro dialogare e scavare dentro a chi ho di fronte, che me lo permetta o no. Adoro i tête-à-tête fotografici! Dentro l’essere umano cerco tutto ciò che mi può comunicare, in bene e in male. Cerco le cicatrici e le gioie, cerco i segni del tempo e i suoi sogni futuri, cerco le sue fragilità, che spesso sono malcelate da aggressività; cerco di liberare la Femminilità, che spesso si annida e si annoda in punti a noi stessi sconosciuti.

La fotografia, quanto è Arte e quanto è mestiere?

È Arte tanto quanto mestiere, e viceversa. Posso dirti di quanto è per me Arte e meno mestiere, anche se per vivere creare non basta e quindi diventa automaticamente Mestiere. Mestiere significa per me fare le foto ai matrimoni, anche se sempre con il mio occhio artistico, oppure compleanni o altri eventi. Arte è creare Storie come ti accennavo poco fa, come un abito su misura per ognuno. La Fotografia diventa Arte nel momento in cui ci si allontana dalla banalità del quotidiano e ci fa vedere diversi dal solito, lasciando però che noi siamo pur sempre noi. È mestiere quando faccio book prettamente cinematografici o per agenzie, quindi standard.

Chi è Gabriella lontano dalla macchina fotografica?

Diciamo che mi risulta difficile auto-definirmi e non lo trovo nemmeno giusto, quindi proverò a rispondere nel modo più obiettivo e conciso possibile. Gabriella: la più grande carnefice di sé stessa nel volersi evolvere, raramente soddisfatta appieno di sé e sempre desiderosa di ottenere di più (da sé e dagli altri), leale, impulsiva e sincera in modo disarmante. La sincerità credo sia il mio più grande pregio e al contempo il mio più grande difetto. Esigente, difficilmente perdono l’ingratitudine, ma sempre la buona fede. Inoltre mi sento Solare e in continua evoluzione. Pretendo tutto perché do tutto, quindi sono un’estremista. J (Come artista: le stesse identiche cose!!!!!) Cerco sempre di circondarmi di chi è come me o migliore di me, per carpire dagli altri sempre maggiori abilità. Detesto l’ipocrisia e la mediocrità; tendo quindi ad isolarmi e ad essere molto selettiva nelle amicizie. Essendo libera professionista, non devo per forza frequentare gente con cui non vado d’accordo, quindi, tranne lavori importanti, mi circondo di pochi ma buoni. Non voglio sembrare presuntuosa: gentile con tutti ma vera per pochi.

Progetti futuri?

Tanti, tanti, tanti e ogni giorno mi sveglio con nuove idee. Ho in programma il mio secondo libro fotografico a maggio/giugno prossimo. Il primo “Luce q.b. Ricette d’aMore”, edito dalla casa editrice Alterego di Viterbo, è uscito a luglio scorso e con mia grande soddisfazione devo dire che è finita la prima tiratura di 100 copie. Esso tratta della Luce che ognuno di noi possiede ed è suddiviso per capitoli inerenti, appunto, alla Luce.
In progetto anche una mostra, e sicuramente farmi conoscere il più possibile in ambito artistico.
Ti ringrazio infinitamente, Stefano, per questa intervista. A presto!

Curata da Stefano Duranti Poccetti

CENERENTOLA 2015 : PRINCIPESSA PER UNA NOTTE

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Mercoledì 30 Dicembre alle ore 19.00, presso il Palazzo Palumbo di Giugliano (ingresso gratuito), si terrà l'evento "Cenerentola 2015: Principessa per una  notte", organizzato da Young Fashion Agency di Nacy D'Anna e Gaetano Agliata, con la direzione artistica di Andrea Axel Nobile e la progettazione culturale di Domenico Ciccarelli.
L'evento sarà condotto da Paola Mercurio, e ospiti della serata saranno: il Cantante Bruno Cuomo, la cantante Giada Penna e l'attrice Daniela De Vita.
Una serata dedicata alla bellezza femminile, ma anche al rilancio dei nuovi e vincenti brand del territorio campano. A sfilare sulla passerella del Palazzo Palumbo di Giugliano gioielli e accessori "Luna Caprese" e le spose di "Le Réve". La vincitrice avrà in premio una preziosa collana, donata dalle gioiellerie Pennacchio, inoltre un book fotografico offerto dalla Young Faschion Agency.

Media Partner dell'evento è Tele club Italia e Secret Style Magazine.

“RAPUNZEL”, LA FAVOLA ARRIVA A MILANO. Di Chiara Pedretti

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Dopo il debutto a Roma all’inizio di dicembre, arriva a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, il musical italiano Rapunzel, tratto dalla celebre fiaba dei fratelli Grimm ma ancora di più dal cartone animato della Disney.

La principessa Gothel è l’erede al trono ma, a causa della sua salute cagionevole, comincia a vivere nell’ombra della sorella minore Gretel che, bella e sana, viene scelta come nuova regina. Gothel, sentendosi rifiutata, si chiude in sé stessa e, ossessionata dalla bellezza e dalla giovinezza, si dedica perciò alla stregoneria ed allo studio delle erbe officinali: scopre così un particolare fiore, il raperonzolo, dai poteri straordinari. La Regina Gretel però non riesce ad avere figli ed il Re chiede, ad insaputa della moglie, aiuto alla sorella, che prepara così un filtro con il fiore, in cambio della promessa che il bambino sarebbe stato allevato da lei stessa. Nasce una bimba, Rapunzel, fonte di giovinezza per madre Gothel, la quale si lega tanto morbosamente alla bambina da rapirla e confinarla in una torre, dove cresce senza alcun contatto con il mondo esterno e a cui fa credere di essere sua madre. Il potere del fiore è nei capelli della ragazza, che per questo non vengono mai tagliati: diventano così lunghi da poter essere usati come una fune, via di accesso ed uscita dalla torre per Gothel. Nel giorno del diciottesimo compleanno di Rapunzel, Phil, un giovane ladro in fuga, si imbatte nella torre aiutandola ad uscire ed a scoprire la realtà circostante, fino a ritrovare i suoi veri genitori ed a scoprire l’inganno della zia.

Lorella Cuccarini è una splendida Gothel: per una volta nei suoi trent’anni di carriera, veste i panni di un personaggio cattivo: una spietata strega che, pur di mantenere giovinezza e bellezza intatte nel tempo, non esita a rinchiudere la nipote in una torre, dirle bugie e negarle la sua vera identità. Bella voce come sappiamo, purtroppo danza poco anche se, a cinquant’anni compiuti lo scorso agosto, è in splendida forma: peccato averla e non sfruttarla a dovere. La affianca una brava Rapunzel, Alessandra Ferrari, già Giulietta (Romeo e Giulietta di Riccardo Cocciante) ed Esmeralda (Notre Dame De Paris). Bella voce, che padroneggia senza esitazioni, è una Rapunzel che, ormai cresciuta, vorrebbe scoprire il mondo che vede dalla sua torre. In casa le fanno compagnia due fiori canterini dalla voce estremamente petulante tanto da risultare fastidiosi. Giulio Corso è Phil, il giovane brigante in fuga che per scappare alle guardie del re, a cui ha rubato dei gioielli, e si rifugia per caso nella torre apparentemente abbandonata, dove invece trova Rapunzel, intimorita dal mondo esterno, ma pronta a difendersi da ogni sconosciuto. Tra il simpatico Phil e l’introversa Rapunzel nascerà un’amore che porterà entrambi a confrontarsi con i propri sogni e a scoprire il proprio passato.

La regia di Maurizio Colombi fa molto affidamento su filmati ed effetti, ma siamo a teatro e non al cinema. Spesso il ritmo è lento e l’andamento risulta noioso, tipico non di uno spettacolo teatrale ma di una favola per bambini. La scena del primo atto alla locanda, ad esempio, è lunghissima ed inutile. Lo stesso dicasi per le scenografie di Alessandro Chiti: tante, troppe, molto infantili ed esageratamente pompose. Carine ed orecchiabili le musiche di Davide Magnabosco, Paolo Barillari ed Alex Procacci; molto belli i costumi di Francesca Grossi. Inesistenti le coreografie di Rita Pivano: pochi passi sempre ripetuti e per niente tecnici.
Nel complesso uno spettacolo per bambini con ben pochi spunti per gli adulti, che, per fortuna, ha Lorella Cuccarini nel cast.

Chiara Pedretti


Teatro Degli Arcimboldi, viale Dell’Innovazione 20, Milano
fino al 10 Gennaio
da martedì a venerdì, ore 21.00; sabato ore 16.00 e 21.00; domenica ore 16.00
biglietti da EUR 150 a EUR 52,50

www.teatroarcimboldi.it

“Euritmie”. Roberta Attanasio e Salvatore Di Marzo firmano una silloge che dalla simmetria del mondo classico ci conduce direttamente all’asimmetria di quello contemporaneo. Di Stefano Duranti Poccetti

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“Euritmie”, una silloge pubblicata nel settembre 2015 dalla Casa Editrice Aracne e che rientra nella collana Prova d’Autore.
Già dal titolo non si nasconde l’intento degli autori Roberta Attanasio e Salvatore Di Marzo di creare qualcosa dal “bel” ritmo e quella particella “eu”, certo, ci fa pensare subito a una silloge contraddistinta dall’armonia. I due poeti rendono evidente fin dalla premessa di voler dare luogo a un “accostamento di parole, la vicinanza di suoni che esse producono, vicinanza non esclusivamente fonica o grafica, ma mentale, vicinanza per analogie, per evocazione di immagini poetiche nel lettore”.
In effetti queste liriche sono contraddistinte da una grande simmetria e si denota nei due autori una predilezione per lo stile poetico classico, rinunciando al verso libero e alle cacofonie. Classico non sta comunque per banale, se il classicismo è accompagnato dalla freschezza compositiva, da una tecnica di scrittura avanzata e da tematiche attuali. Sono caratteristiche che hanno entrambi i poeti, che, non a caso, hanno deciso di pubblicare questa raccolta insieme. Li accomuna lo stile, come li accumunano i temi da loro scelti, quei temi che fanno parte delle nostre vite, dalle emozioni umane alla natura, dall’impeto delle passioni alla quiete della contemplazione.

Tu Apollo dai dorati raggi eterni
Di me fai tenero fiore d’elianto
Mentr’io mi volto al tuo sembiante umano
Qual Venere divina al bel suo amante
Eros tremante che di baci veste
Le membra sue nude mentr’ella va
Lieta e vaga e sospira all’amore.

Uno stile classico, come detto, accompagnato anche dall’uso di immagini classiche e mitologiche. In parte ci potrebbe sembrare di leggere una poesia di Saffo, dall’altra ci rendiamo conto invece di quanto Roberta Attanasio riesca a offrire, tramite la tradizione, un sentimento di contemporaneità, ponendo questi versi all’interno di un’atmosfera profondamente passionale. Il gusto per il bel suono e per il bel verso è insomma accompagnato all’intenzione di volerci parlare del mondo che oggi viviamo, dove quei teneri sentimenti, che gli antichi greci potevamo vivere liberamente e naturalmente, oggi non hanno più possibilità di essere vissuti con quella semplicità, perché ormai ostacolati da troppi paradigmi sociali, che non permettono spesso e volentieri al cuore e allo spirito di potersi elevare.

Tra i secreti pensieri,
Tra speranze e illusioni;
Così, dal mondo oblita
E da tutto, tra voci
Silenti, in compagnia sol di sé stessa.

In questa lirica Salvatore Di Marzo affronta un’altra tematica, quella legata alla solitudine e, come l’autrice, fa uso di uno stile classico per parlare di un argomento che oggi più che mai sentiamo tanto vicino. La poesia sembra voglia enunciare che, seppur immersa nel caos totale, che sia questo spirituale o esteriore, la protagonista se ne sta sola, non partecipa. Forse si sta guardando dentro per trovare se stessa in un mondo di massa dove non è semplice trovare la propria unicità. Nonostante le difficoltà lei ci prova, dimostrandoci che la sua solitudine è solo apparente, perché essa è “in compagnia sol di sé stessa”, appunto… non è sola, proprio perché la fortuna di trovare in se stessi il proprio compagno/a è certamente una delle cose più piacevoli dell’esistenza, poiché solo a quel punto si comprende che la solitudine in realtà non esiste.

Due poeti in parte simili, sia per stile che per contenuti. Diremo che Roberta Attanasio ha una scrittura fluida e melodica, che gioca molto sulle assonanze delle vocali, mentre quella di Di Marzo è volutamente più “sforzata”, per usare un termine musicale, dove sono presenti invece molte assonanze consonantiche. Poeti diversi insomma, ma entrambi eleganti e toccanti, capaci di trascinarci all’interno del loro straordinario, allo stesso tempo classico e contemporaneo, universo poetico.


Stefano Duranti Poccetti

“Après une lécture de Liszt”. Il Liszt spirituale e passionale di Giuseppe Albanese. Di Stefano Duranti Poccetti

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Il nuovo pianismo italiano esiste ed è promettente, come si evince dal disco della Deutsche Grammophon uscito di recente e di cui mi accingo a parlare. Prende il nome di “Après une lécture de Liszt” (che recupera il titolo lisztiano della composizione “Après une lécture de Dante”, presente nella raccolta) e il pianista è il calabrese Giuseppe Albanese, che si muove a suo agio su un repertorio assai complesso e variegato, qual è appunto quello presentato. I brani sono otto e si parte dall’onomatopeico “Au Bord d’une source”, dove il compositore delinea con limpidezza e con dolce tenerezza evocativa, a volte con temi giocosi, la sua sensazione di stare nei pressi di una fonte. È per questo che la musica pare proprio così “acquatica”, nitida fino allo splendore. Certo, si tratta di una sorgente idealizzata da uno spirito romantico, abituato a dare un impasto altamente poetico e concettuale ai suoi pezzi. Questo preambolo per arrivare a dire che Albanese si trova proprio vicino a questo spirito ed entra pienamente in sintonia con l’armonia dell’autore ungherese, essendo estremamente lirico e soave quando richiesto e incisivo e determinato in tutti quei frangenti dove esplodono la passione e il vigore lisztiani, che il compositore non poteva contenere neanche nei brani più miti. Il pianista italiano è perfettamente a suo agio sulla tastiera e, non solo dà un’ottima interpretazione dello spartito, ma lo completa con la sua energia particolare, vigorosa, fresca, unita a una tecnica magistrale; elementi, questi che ho elencato, che ritroviamo in tutti i brani qui proposti. Il tema “acquatico” è presente anche nel pezzo seguente, “Les jeaux d’eaux à la Villa d’Este”, dove la limpida e lirica melodia precedente si trasforma in una maggiormente frizzante, mettendo così in luce più il tema del gioco – attraverso danzanti arpeggi – rispetto a quello dell’acqua in sé e per sé; elemento giocoso dove Albanese si trova ancora una volta pienamente preparato, corrispondente allo spirito ludico del brano. Si abbandonano a questo punto, per un attimo, gli “Années de pèlerinage”, che saranno ripresi e completati più tardi con “Après une lecture de Dante”, a favore della seconda leggenda “Saint-François de Paule marchant sur les eaux”. Qui è evidente fin da subito un’atmosfera mistica, arcana, dove predomina una grande quantità di non detto, d’indicibile, di soprannaturale; si tratta di un’atmosfera cristallizzata, proprio come se ci trovassimo davanti a una visione, tratteggiata con queste note che cadono a strapiombo, a peso morto sulla tastiera; note che sembrano volerci spiegare qualcosa, ma impossibilitate nel farlo, come ingabbiate nell’incapacità dell’uomo di poter parlare del soprannaturale. Sarà per questo che poi la tastiera s’infuria e che attraverso crescendo eccezionali ci porta verso delle sequenze quasi rabbiose e disperate, dove Albanese, giustamente, non ha paura di osare, non ha paura di esagerare, ed è per questo, grazie al suo coraggio e alla sua velocità di esecuzione, che quel contrasto a botta e risposta tra la mano destra e la mano sinistra risulta così incisivo. Alla fine si torna a una dimensione di stasi, catartica… il miracolo è avvenuto, ma noi, da uomini, abbiamo saputo parlarne soltanto attraverso le passioni umane. Nonostante questo non si smette mai di cercare di elevarsi verso un alto grado di spiritualità. Non è molto diverso lo schema dell’ “Après une lecture de Dante”, il brano numero quattro del disco, che alterna momenti di stasi, mistici, a momenti estremamente ardenti. In questo caso non ci si riferisce più a una reminiscenza religiosa, ma letteraria, però non per questo la partitura non è ugualmente caricata di un carattere fortemente spirituale, come sono presenti d’altronde quegli impeti di grande passione, tanto cari al compositore, dove Albanese, rispettando i piano e i forte, sempre asciutto e chiaro, anche nelle scale più vertiginose, fa sì che tutte le note escano in maniera pienamente pulita. Anche in questo caso il pianista italiano si muove bene nel suddetto dualismo e, da contemplativo, s’inarca poi verso quei sentimenti intensi e forti con grande facilità, non smettendo mai di trasmettere sul pianoforte il suo grande entusiasmo. Tra trilli, rapidissime scale e crescendo solenni, ci porta alla fine di questa composizione strappandoci applausi e rendendoci intensi sentimenti. Nel quinto brano, “Rhapsodie Espagnole”, lo spirito lisztiano s’infarcisce di una sensuale vena spagnoleggiante, senza comunque rinunciare a una scrittura densa e virtuosa, che a tratti diventa lirica e anche melanconica, dove la mano del pianista italiano dà il giusto valore timbrico ed emotivo ai fraseggi. La melodia a volte prende il volo, diventando ritmica e danzante, ballabile. Danzante, seppur di una danza ieratica, è anche il sesto brano “Danse des Sylphes”, che, per la durata dei suoi quattro minuti, mantiene un andamento ipnotico che potrebbe appartenere a una ninna nanna o un carillon. Si tratta del primo dei tre brani finali consacrato alle trascrizioni lisztiane delle opere, la danza della quale abbiamo parlato viene infatti da “La damnation de Faust” di Berlioz. Il successivo “Isoldens Liebestod” è invece una trascrizione dal “Tristan und Isolde” di Wagner, mentre l’ultimo brano in programma, “Réminiscences de Norma”, si sviluppa attraverso i celebri temi belliniani. Anche in questa triade che completa la raccolta Albanese se ne dimostra all’altezza e suona con cura l’ipnotica danza di matrice berlioziana, come del resto è perfettamente a suo agio nella maestosità, sacralità, intensità wagneriane. L’ultimo brano in programma, il più lungo della raccolta con i suoi diciassette minuti e mezzo, si dimostra come una sorta di riassunto pianistico dell’opera di Bellini, una vera e propria fantasia sulla “Norma”, dove l’eco dei motivi del compositore italiano sono inseriti all’interno del già citato stile lisztiano, composto da virtuosismo, virilità, passionalità, ma anche da ieraticità e delicatezza. Come per gli altri brani, anche qui l’interpretazione del pianista è eccellente, sia a livello tecnico che viscerale, dando prova di riuscire a sfruttare tutte le variegate timbriche della tastiera, rendendoci così un risultato multicolore, senza perdere organicità e uniformità. Bravo nei crescendo, nei piano e forte, interpretando al meglio i preziosismi dello spartito, ne fa scaturire un risultato suadente ed evocativo.
Elogi al pianista dunque, come elogi vanno all’organizzazione di questa raccolta, di cui si apprezza il titolo, che riprende la sopracitata composizione dell’autore e che con quell’ “Après une lecture de Liszt” ci sembra adatto per parlare in modo approfondito della figura del pianista ungherese. Si apprezza infine anche la scelta dei brani, che mettono insieme il Liszt “pellegrino” e viaggiatore, quello spirituale, nonché l’inesauribile sperimentatore e trascrittore.


Stefano Duranti Poccetti

Il Teatro Verdi di Trieste conclude il 2015 con due concerti fuori cartellone. Di Paola Pini

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Trieste, Teatro Giuseppe Verdi. 23 e 31 dicembre 2015

La Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste ha allestito, per la fine del 2015, due bei concerti, la sera del 23 dicembre, antivigilia di Natalead ingresso libero e il pomeriggio del 31, come “pre-aperitivo” in attesa del nuovo anno con biglietti a prezzo unico e popolare. In entrambi la proposta è stata varia, perfettamente adatta alle due occasioni, ma non scontata, alternando i brani che tutti si attendono, in particolare il 31, con valzer, polke, suite da balletti e l’inevitabile Radetsky Marsch, con altri meno scontati, scritti da compositori per lo più italiani e non abituali in simili contesti.
Piacevoli serate, successo delle iniziative, con orchestra e interpreti che hanno saputo dare al pubblico emozioni e divertimento. Il concerto natalizio ha visto sul podio il M° RyuchiroSonoda, presente a Trieste per la direzione de “L’elisir d’amore” di Donizetti e, oltre all’Orchestra e al Coro del Teatro, diretto dal M° Fulvio Fogliazza, per molti dei brani in programma gli spettatori hanno potuto ascoltare alcuni dei solisti della stessa opera: il soprano Roberta Canzian, il tenore Luis Gomes e il baritono Filippo Polinelli.
Per quello di fine anno invece, l’orchestra del Teatro è stata guidata dal M° Fabrizio Maria Carminati, al quale sarà affidata la direzione di “Norma” di Bellini, in cartellone dal 29 gennaio al 6 febbraio prossimi.
La risposta del pubblico è stata entusiastica in entrambe le occasioni cosicché, registrato il tutto esaurito, nella piazza antistante il teatro è stato messo a disposizione un maxi-schermo per chi era rimasto senza biglietto.
All’interno, persone di tutte le età, molti i giovani, tanti i bambini; è bello vedere delle piccole mani sporgersi da un palco nell’atto di applaudire: sono gesti che danno speranza per il futuro. Indicano che non bisogna temere di fare sempre di più e sempre meglio per avvicinare le nuove generazioni ad un mondo che è parte essenziale della nostra cultura, europea sicuramente, ma prima ancora italiana, ma pure che quando si agisce con un’intenzionalità sincera la risposta c’èe le visite guidate aperte alle scuole, le lezioni-concerto, gli abbonamenti riservati agli allievi degli istituti scolastici confermano la presenza di tale volontà nella dirigenza di questa Fondazione. 

Il concerto di Natale del 2014, anch’esso offerto alla cittadinanza era stato allestito al PalaRubini, il palazzetto dello sport di Trieste, per essere accessibile ad un grande numero di persone. Quest’anno si è scelto di tornare “a casa” aprendo le porte del teatro. La musica classica può essere suonata ovunque, ma avere la possibilità di ascoltarla nei luoghi per i quali è stata scritta, permette di viverla in altro modo. È bello avere la conferma che ci siano ancora genitori e i nonni disposti a condividere con i propri figli e nipoti questa magia: se tutto questo continua ad avvenire significa che c’è speranza per il futuro e che non è un’idea anacronistica voler insistere nell’investire in questo patrimonio, fondamentale per ognuno di noi.

Paola Pini


Concerto di Natale
mercoledì 23 dicembre alle 20.30 - Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore RyuichiroSonoda
Soprano Roberta Canzian
Tenore Luis Gomes
Baritono Filippo Polinelli
Maestro del coro Fulvio Fogliazza
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

PROGRAMMA
Wolfgang Amadeus Mozart
Drei Deutsche Tänze für Orchester KV 605
Tanz n. 3
Le nozze di Figaro
Ouverture
Hai già vinta la causa…. Vedrò mentr’io sospiro
Gioachino Rossini
La Cenerentola
Sinfonia
Gaetano Donizetti
L'elisir d'amore
Una furtiva lagrima
Prendi, per me sei libero
Don Pasquale
Sinfonia
Bella siccome un angelo
Franz Lehár
Das Land desLächelns (Il paese del sorriso)
DeinistmeinganzesHerz
Charles Gounod
Roméo et Jiuliette
Je veuxvivre
Pietro Mascagni
Cavalleria rusticana
Gli aranci olezzano
Ruggero Leoncavallo
Pagliacci
Don, din, don, suona vespero…
Giuseppe Verdi
La traviata
Libiamo nei lieti calici…

Ingresso libero previo ritiro degli inviti

Concerto di fine anno
giovedì 31 dicembre alle ore 17.00 - Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

PROGRAMMA
Johann Strauss Jr.
Die Fledermaus - Ouverture
An derschönen, blauenDonau - valzer
UnterDonner und Blitz - Polka Schnell
Tritsch-Tratsch-Polka
Ottorino Respighi/Gioachino Rossini
La boutique fantasque - Tarantella, Can-can
Franz von Suppé
LeichteKavallerie - Ouverture
Giuseppe Verdi
Valzer brillante
PëtrIl'ičČajkovskij
Lo schiaccianoci, «suite» dal balletto
Dansescharactéristiques:
Marsch - Danse russe - Trépak, Dansechinoise, Dansedesmirlitons
Valse desfleurs
Amilcare Ponchielli
La Gioconda – Danza delle Ore: ballabili


 POSTO UNICO € 10,00

“LA SCUOLA” VENT’ANNI DOPO: TORNA IN TEATRO IL CELEBRE SPETTACOLO DI DOMENICO STARNONE

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Teatro Morlacchi, Perugia. Domenica 3 gennaio 2016

LA SCUOLA ITALIANA FUNZIONA SOLO CON CHI NON NE HA BISOGNO” (Prof. Cozzolino/Silvio Orlando)

Giugno 1991. In Italia c’è la lira, destinata a durare ancora per una decina d’anni; i telefoni cellulari sono enormi, e con quell’antenna sembrano piuttosto dei buffi walkie-talkie. E per quanto riguarda la scuola? Il ministro dell’istruzione è Rosa Russo Iervolino, gli esami di stato sono valutati in sessantesimi…Tra le tante differenze rispetto alla scuola attuale, c’è però una costante: giugno è l’ultimo mese di lezioni, ed è quindi tempo di bilanci. I professori sono chiamati a esprimere il giudizio che deciderà il futuro degli studenti. Nella palestra adibita ad aula insegnanti provvisoria (dato che nella vera aula insegnanti piove dal soffitto un misterioso liquido giallo…), lo scalcinato corpo docente della IV D è riunito per decretare i promossi e i bocciati dell’anno scolastico appena concluso, in un clima a dir poco effervescente: prima delle discussioni di rito, la riunione si trasforma in un guazzabuglio di sfoghi personali, regolamenti di conti, rivelazioni e pettegolezzi vari…
Del resto, da una tale galleria di protagonisti, cos’altro ci si potrebbe aspettare? Partiamo dall’insegnante di lettere e storia, il democratico e “garantista” prof. Cozzolino, ex- “settantasettino” -con tanto di ferita di guerra sul petto- perennemente dalla parte degli studenti; che dire, poi, della Baccalauro (Marina Massironi), l’eternamente indecisa prof. di ragioneria, che nutre una malcelata simpatia -ricambiata- per Cozzolino? O del prof. di impiantistica Cirrotta (Antonio Petrocelli), detto “termosifone” per via del suo doppio lavoro di insegnante e ingegnere, la cui principale preoccupazione è quella di rimorchiare le studentesse? Meglio, forse, il prof. di religione Mattozzi (Vittorio Ciorcalo), che sembra aver dimenticato l’esistenza del sapone? Oppure l’isterica prof. Alinovi (Maria Laura Rondanini), storia dell’arte, per la quale conta solo il pittore Simone Martini? Non è certo da meno il reazionario e un po’ razzista prof. di francese Mortillaro (Roberto Nobile), buon bevitore nonché accanito sostenitore del ”ritorno alla terra” e della tesi secondo cui gli studenti non sono altro che B.R.A.: Beduini Rubati all’Agricoltura. E il preside (Roberto Citran), importante ago della bilancia? Un matematico un po’ all’antica, che oltre a non conoscere Vasco Rossi dimostra di avere qualche problemino (eufemismo) con le discipline umanistiche, in particolare il latino (“DISCUTEREMO LA QUESTIONEIN TOTEM). A complicare le cose, si aggiungono la tutt’altro che obiettiva relazione della prof. Alinovi sulla gita a Verona e una misteriosa lettera anonima, scritta forse dallo studente un po’ particolare Cardini (la sua unica capacità è imitare la mosca), che rivela la tresca tra Cozzolino e la Baccalauro

La scuola è una divertente e agile commedia dai risvolti grotteschi che riflette sul sistema scolastico e sulle sue finalità adottando il punto di vista dei professori, mostrati in tutta la loro umana vulnerabilità e contraddittorietà. Due ore piacevoli in cui si ride e si ripensa ai tempi della scuola, con un ritmo comico che non ha cedimenti. Allestimento essenziale ma efficace, per uno spettacolo che poggia interamente sui dialoghi scoppiettanti del testo e sulle doti dei sette attori in scena, un ottimo gruppo guidato dal “solito” Silvio Orlando (ma merita una menzione particolare anche il bravo Roberto Nobile). Memorabile il finale tra il surreale e il poetico, con la (vana) arringa difensiva di Cozzolino che, come un angioletto volante, tenta di salvare Cardini dalla bocciatura mostrando tutta la leggiadria e la grazia della mosca che si libra nell’aria…
La pièceche ha inaugurato il filone “scolastico”, originariamente intitolata Sottobanco, nasce nel 1992 dalla penna dell’insegnante e scrittore Domenico Starnone, che adatta per il teatro il suo libro omonimo. L’operazione si rivela un grande successo, tanto grazie alla regia dell’allora giovane Daniele Luchetti (tornato al timone per questa tournée celebrativa), quanto alla presenza dello stesso Silvio Orlando, che grazie a questo spettacolo ottiene la consacrazione definitiva come attore di livello; non va poi dimenticato il contributo degli altri attori, tra i quali cito almeno Angela Finocchiaro. Nel 1995 Starnone, insieme agli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, oltre a Luchetti, che cura pure la regia, rielabora Sottobanco e altri due suoi libri (Ex cathedra e Fuori registro) per realizzare il film La Scuola: un altro successo di pubblico e di critica. Determinante, ancora una volta, la prova di Silvio Orlando e degli altri attori (tra cui Anna Galiena e Fabrizio Bentivoglio). Nel 1997 la coppia Starnone-Orlando ci riprova con il film Auguri professore (tratto dal libro di Starnone Solo se interrogato), per la regia di Riccardo Milani, ma il risultato non è all’altezza de La scuola.

Francesco Vignaroli


di Domenico Starnone
con Silvio Orlando
Marina Massironi, Vittorio Ciorcalo, Roberto Citran, Roberto Nobile, Antonio Petrocelli, Maria Laura Rondanini
regia Daniele Luchetti
produzione Cardellino srl
Durata 2 ore (più intervallo)

ELEONORA IOTTI, IL FASCINO DELLA ROMAGNA. Intervista di Alberto T.

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Bella è bella, altrimenti non sarebbe mai arrivata fra le finaliste di Miss Italia. In gamba lo è, altrimenti una delle più importanti aziende della pelletteria mai le avrebbe affidato un ruolo di responsabilità in uno dei punti vendita più importanti del territorio. E sensuale… è sensuale, vedere le sue foto per credere. La parlantina non le manca arricchita da una “r” che conquista l’interlocutore, il fascino neppure tanto che continua ad essere fra le ragazze immagine più richieste del Centro Italia, nel cuore di quell’Emilia Romagna in cui abita e lavora. Eleonora Iotti è donna manager che non disdegna il campo dell’immagine e della fotografia, una di quelle ragazze che incarnano l’essenza del detto “oltre alle gambe c’è di più”. Perché vada per una fotografia, ma l’espressione fa la differenza. E Eleonora lo ha imparato a fatica, conquistando fasce nei concorsi di bellezza, facendo da testimonial per importanti brand locali e lanciandosi nel 2016 per un’avventura che potrebbe legarla ad un marchio di straordinaria importanza per il mondo femminile. Egocentrica ed esibizionista, innamorata della palestra e del fashion, sembra aver bevuto l’elisir dell’eterna giovinezza. Bella oggi come lo era a Miss Italia, richiestissima dai fotografi, animatrice delle notti romagnole più cool. Più in gamba di così…

Bellissima e sensuale: dove sta il trucco?

Anima sana in corpore sano, ecco dove sta il mio segreto! Ho un rapporto particolare con la mia bellezza, e sono davvero convinta che l’anima possa stare meglio se la si tratta bene. Ecco perché curo ogni lato di me stessa, senza compiere troppe rinunce!

Insomma, non sei la fotomodella che non mangia per sentirsi in forma…
 
Assolutamente no, non è questo il mio credo! Adoro la cucina, preparare qualche piatto prelibato e gustarlo! Anche questo aiuta a piacersi…

Ed Eleonora Iotti oggi si piace più che mai…

Diciamo che mi piace sentirmi una donna di fascino, sicuramente agli occhi degli uomini sono una ragazza che piace…

Tutto è partito alcuni anni fa, dal concorso di bellezza più importante d’Italia…

Sì, da ragazzina ho vissuto Salsomaggiore, la straordinarietà di Miss Italia, e sognavo di esserci anche io fra le cento ragazze più belle del nostro Paese. Insomma, tutto è iniziato da qui, dall’ammirare in tv le dive del cinema ed immaginare di essere come loro.

E di strada Eleonora Iotti ne ha fatta tanta…

I miei traguardi me li sono conquistati duramente! Ho un diploma di operatore turistico, nella vita avrei voluto diventare una hostess di volo. Poi, la ruota della vita mi ha portato a rinunciare a quel mio sogno e a coltivare il mondo della moda, dello spettacolo. Ho iniziato con i concorsi di bellezza, i miei genitori non mi hanno mai ostacolato. Anzi… Ma dai concorsi sono passata subito alla fotografia perché la sfilata in sé non mi dava nulla se non la soddisfazione della fascia o dell’essere piaciuta alla giuria. La moda, la fotografia e il ballo trasmettono un’immagine di me più veritiera, in cui spicca l’energia che ho dentro. Sono tre settori che esaltano il mio essere artista e nei quali continuo a coltivare il mio sogno.

Rimpianti per non essere diventata una diva?

No, i rimpianti hanno un senso solo se relazionati a ciò che davvero non riesco a fare! In tutti gli altri settori, mi sono buttata e col lavoro ce l’ho fatta!

Hai trovato pregiudizi sulla tua strada?

Sì, fotografia e concorsi inducono la gente a pensare chissà cosa, anche se poi l’invidia investe ogni settore! Non mancano nemmeno gli uomini che mi rivolgono proposte indecenti… ma stiano bene attenti alla mia risposta! Non so se dopo le mie parole si sentirebbero così tanto uomini in cuor loro…

Su cosa punti per conquistare l’altro?
 
Lo sguardo, e non è una banalità! Penso che l’uomo sia attratto da un viso intenso. Certo, ho anche altre armi di seduzione…

Che sarebbero?

Un intimo nero con pizzo e trasparenze, un trucco con cui di sera si può osare, un vestito aderente che faccia intravedere senza scadere nel volgare.

Vizi di una fotomodella?

In estate adoro andare a letto lasciandomi avvolgere solo da un lenzuolo… Mi piace in realtà tutto ciò che è adrenalina, meglio ancora se di mezzo ci sono i motori o gli sport estremi. Mi piace assaporare la vita in ogni sfumatura.  

Eleonora in tre aggettivi che ragazza è?

Una ragazza solare, timida e riflessiva, a cui piace sognare e che ama l’arte in ogni sua forma.

Pensi di avere qualcosa più delle altre donne?

Forse sono consapevole di come gira il mondo, mentre altre vivono di illusioni. E so che per curare la mia immagine esteriore occorrono sacrifici. Mangio sano, vado in palestra, mi piace curarmi.

Hai paura di invecchiare?

Ho paura di non essere più indipendente come lo sono adesso. Ma la vecchiaia è un processo inevitabile… Per ora mi mantengo in forma, che ne dite?


Curata da Alberto T.

“IL LAGO DEI CIGNI” SINTETIZZATO. Di Chiara Pedretti

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Milano, Teatro della Luna. Sabato 2 gennaio 2016

A Milano, al Teatro Della Luna, è andata in scena una sola replica de Il Lago dei Cigni interpretato dalla Compagnia Nazionale di Raffaele Paganini, con la coreografia di Luigi Martelletta.
Un classico della tradizione, che vede la sua prima rappresentazione nel lontano 1877, con musica di Piotr Ciaikovskij, in tre o quattro atti a seconda delle versioni. Non si contano le versioni coreografiche: più o meno classiche, con il finale positivo o negativo, contemporanee, o addirittura stravolgimenti completi della storia delle donne trasformate in cigni dal cattivo di turno, il Mago Rothbart.
La versione di Martelletta è fortemente legata alla tradizione, ma ne fa un’opera innanzi tutto più breve, nemmeno due ore, sintetizzata tagliando molte parti, spesso in effetti di abbellimento ma poco utili ai fini della storia. Primo e secondo atto tradizionali costituiscono la prima parte: la festa al castello del Principe Siegfried, l’uscita con gli amici e la scoperta dei cigni che di notte tornano ad assumere sembianze femminili, con conseguente colpo di fulmine tra Siegfried e Odette. La seconda parte si apre con l’atto del Cigno Nero-Odile, ma qui anche si chiude: manca la parte finale, dove Siegfried, pentito per aver giurato amore eterno ad Odile credendola Odette, cerca di riunirsi con l’amata. Martelletta sceglie innanzi tutto il finale negativo: Siegfried, accortosi dell’errore, si dispera ma la sua Odette ormai è senza speranza: lo spettacolo si chiude con lei morta, adagiata su un albero.
Dieci danzatori nel cast, sei ragazze e quattro ragazzi, sono riusciti a ricreare l’immortale capolavoro della tradizione del balletto classico, dove tradizionalmente i ballerini sono tantissimi. Di Raffaele Paganini c’è solo il nome della compagnia, ma i danzatori sono tecnicamente molto prearati anche se manca del tutto l’interpretazione. La coreografia è bellissima, molto tecnica e fisica, potremmo dire proprio “alla Paganini”: grandi salti, pirouèttes, prese difficili, ma il tutto senza anima. Maria Kicevska, macedone, è un Odette-Odile identica, tecnicamente brava ma sempre uguale. Lo stesso dicasi per Boban Kovachevski, un Siegfied dalla personalità ignota: prima o seconda parte, l’espressione non cambia, meno male che la tecnica lo sostiene. Bello invece il Rothbart di Sebastiano Meli, graffiante, cattivo, perfido al punto giusto. Fra le ragazze, solo Maria Chiara Grasso ci dà l’impressione che le piaccia davverio quello che sta facendo. Peccato davvero perché la preparazione tecnica c’è, la coreografia merita davvero ma quando manca l’anima manca molto.
Da vedere, sempre di riuscirci: all’estero gli spettacoli rimangono in scena settimane se non mesi, in Italia… Un tale allestimento per una serata. Difficilmente comprensibile.

Chiara Pedretti


Teatro della Luna
Via G. Di Vittorio – Assago (MI)
02 gennaio 2016, ore 21

www.teatrodellaluna.com

"Don’t stop dreaming", il nuovo disco di Paolo Preite prodotto da Fernando Saunders

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In passato avevamo già parlato di Paolo Preite, il giovane cantautore romano classe 1985, che finalmente è giunto alla pubblicazione del suo primo album solista Don’t stop dreaming, con l’etichetta discografica SeaHorseRecordings, che si può trovare sia in formato digitale sia nei migliori negozi di musica. Le tracce presentate sono dieci: DON'T STOP DREAMING, Where did you go, Love Love Love, Io Re Di Me, Neda, I Wanna Hold Your Hands, Life Show, Mary, Just One Kiss, The King Of All Winds. Tutte le canzoni sono state scritte da Preite, tranne Where did you go, Io Re Di Me e Neda, scritte in collaborazione con Fernando Saunders – che in passato ha collaborato con grandi musicisti del calibro di Lou Reed, Jeff Beck e Marianne Faithfull -, il quale ha anche prodotto il disco del cantautore romano, dove un sound acustico porta dentro di sé reminiscenze rock, folk, country… una miscela che dà origine a un risultato originale, melodico e molto piacevole all’ascolto. Preite giunge a Don’t stop dreaming dopo cinque anni di duro lavoro e alla sua realizzazione hanno contribuito anche altri musicisti, come Kenny Aronoff, Marc Halbheer e Peter Krajniac. Sicuramente una bella notizia per la musica italiana, con la dimostrazione che, girandoci intorno, si possono trovare bravi autori, ai quali si augura un glorioso futuro.



IL FANTASMA DELLA GARBATELLA. Non solo risate. Di Paolo Leone

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Roma, Teatro Ambra Garbatella. Fino a domenica 10 gennaio 2016

Nuova commedia firmata Gabriele Mazzucco, dichiaratamente comica, “di intrattenimento” (parole testuali dell’autore). Ma quando una penna ha una determinata cifra stilistica, questa non viene tradita nemmeno in un testo molto divertente come Il Fantasma della Garbatella, in scena al Teatro Ambra fino a domenica 10 gennaio. Dopo l’innovativo “M’iscrivo ai terroristi”, l’autore romano si rilassa (per modo di dire) con una commedia sì leggera, ma ricca di una comicità colta, di citazioni e riferimenti sottili, di allusioni sociopolitiche da cogliere, che non possono mancare nella sua ironica e caustica visione della vita e della messa in scena. Con un ritmo forsennato, la storia viene affidata ad un cast di suoi fidati attori che riescono, già alla prima del 7 gennaio, ad interpretare al meglio i rispettivi ruoli, Lallo (il fantasma, uno strepitoso Andrea Alesio), un noto malandrino della Garbatella, deceduto tre anni prima, viene inviato direttamente da Dio nel suo vecchio quartiere, in casa della cugina zitella, Angelina (Paola Raciti, tempi comici perfetti) per appurare se il genere umano sia pronto per la nuova venuta del Messia. Compagno di viaggio, uno strambo arcangelo Raffaele (Chiara Fiorelli, una bella conferma). Ne accadranno delle belle, tra cui l’incontro con un vecchio amico di malaffare (Armando Sanna, sorprendente new enty nella compagnia), la comparsa di un fratello gemello dal forte accento abruzzese (lo stesso Alesio), la bella vedova Matilde (Federica Orrù) impegnata suo malgrado nel mestiere più antico del mondo. Tutti nascondono un segreto su quel decesso che pian piano si svelerà agli occhi del povero Lallo. Riuscirà questi a portare a termine la missione affidatagli? L’Arcangelo manterrà i nervi saldi davanti al desolante quadretto familiare? Il segreto si svelerà? Ma soprattutto: siamo pronti per la nuova venuta del Messia? Commedia divertente, mai volgare, ben equilibrata nei ruoli e non priva di riflessioni, dai ritmi sostenutissimi,  con quel tocco di surrealismo tanto caro al suo autore ed un finale sorprendente.

Paolo Leone


Roma, Teatro Ambra Garbatella (Piazza Giovanni da Triora 15)
Compagnia degli Arti Gialli presenta:
Il Fantasma della Garbatella, scritto e diretto da Gabriele Mazzucco.
Con: Andrea Alesio, Chiara Fiorelli, Paola Raciti, Armando Sanna, Federica Orrù. 

ELENA MASCHERONI, L’ASPIRANTE OTTICO STRIZZA L’OCCHIO ALLA FOTOGRAFIA. Intervista di Alberto T.

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Se nella botte piccola si dice ci sia il vino buono, in Elena Mascheroni c’è un concentrato di bellezza, sensualità e malizia che ha stregato i fotografi di mezza Italia. Lei è “piccola, ditemelo pure che non mi offendo”, ma terribilmente sexy. Occhi verdi, capelli biondissimi, fisico che non passa inosservato. Vent’anni, residente a due passi dall’aeroporto di Malpensa, non è un caso Elena che sia pronta per spiccare il volo nel mondo della fotografia. L’età è dalla sua parte, un pizzico di esibizionismo non le manca, la simpatia si intuisce a pelle. Bellissima ma acqua e sapone, perché la semplicità fa parte del suo dna. Sarà perché l’esser diventata fotomodella è una strada intrapresa quasi per caso, sarà perché fra dieci anni si vede ancora in questo mondo ma anche donna manager in un negozio di ottica. Ambiziosa più che mai. E se così non fosse, con i suoi 150 centimetri non avrebbe potuto scalare le montagne dell’invidia. Ed invece, oggi è gettonatissima e richiestissima. “Il mio sogno è quello di essere una fotomodella di cui si parla bene perché sa muoversi, sa curare il suo corpo e mettersi in posa trasmettendo emozioni”. Idee chiare in testa…

Eppure, fino a pochi anni fa, il tuo quotidiano era fra i banchi di scuola…

Esattamente, ho studiato cinque anni geometra ma non era la mia strada. Oggi frequento un corso di specializzazione in Ottica a Milano, una professione interessante e ancora sottovalutata.

Restando nella metafora, pochi mesi fa hai iniziato a strizzare l’occhio alla fotografia…

Volevo farlo da molto tempo, a settembre ho colto al volo l’occasione e non mi sono più fermata. Ogni volta è un’esperienza indimenticabile. I miei 15 set, al chiuso e in esterna, sono un divertimento che spero di proseguire a lungo.

Eppure con la tua altezza hai dovuto combattere a lungo.  

Per me è stata spesso un complesso. Il mio animo romantico mi ha fatto coltivare il sogno di posare con abiti da sposa, ma sono troppo piccola per poterlo realizzare. Ho avuto la fortuna di avere alle spalle un papà fotografo che fin da piccola mi ha messo al centro dell’attenzione per immortalarmi in uno scatto. E io da lui ho preso la passione: quando ha smesso, ho iniziato io…

Essere al centro dell’attenzione, ti piace…

Non mi dà fastidio, penso sia essenziale per la buona riuscita di un set. Ma ho imparato presto che la sintonia col fotografo è fondamentale per un risultato che soddisfi entrambi. Luci, contesto e atmosfera fanno davvero la differenza…

Rispetto alle altre fotomodelle, sei fuori dai canoni…

E a volte questo mi fa perdere autostima, non lo nego. Le vedo altissime, avrei voluto conquistare almeno una fascia in qualche concorso di bellezza, ma sono troppo bassa per essere ammessa. Cosa mi resta? La bella presenza, il sorriso, l’entusiasmo e un briciolo di pazzia. E poi, le ragazze basse possono permettersi di avere ragazzi sia alti che bassi!

Cosa vorresti trasmettesse una tua foto agli occhi di chi la guarda?

Dolcezza e provocazione, un contrasto di bene e male. Mi piace l’immagine della bimba monella, che gioca col suo orsacchiotto Teddy e trasmette con uno sguardo e con una posa un misto di genuinità e malizia. Nella vita d’altronde sono così: dolce e provocante, cattiva e buona, esuberante e razionale. Complessa!
 
L’importante è essere protagonista…

Il mondo della fotografia mi permette anche questo: essere al centro dello sguardo, essere io l’oggetto da fotografare. Nel quotidiano, quando una persona non mi considera divento nervosa. Con le parole, con i gesti, con uno sguardo, cerco di avere io le luci della ribalta addosso. Insomma, il mio habitat naturale è il set fotografico…

Dove, naturalmente, hai iniziato a sperimentare

Vi sono tappe lungo un percorso, è normale che io voglia sperimentare nel mondo della fotografia. Io mi sono buttata con l’umiltà dell’ultima arrivata e con l’ambizione della ragazza che vorrebbe fare della fotografia un lavoro extra.

Insomma: iniziata come uno sfizio, potrebbe trasformarsi in altro…

Proprio così! Ma l’elemento del divertimento deve rimanere preponderante sempre, altrimenti si perde tutta la magia. Mi piace, scherzando, riflettere su chi sia quella ‘gnocca’ in fotografia e pensare che sono proprio io! Alcuni miei scatti sono già finiti nella classifica Nikon, altri saranno protagonisti di progetti importanti. Ogni cosa a suo tempo…

Hai trovato pregiudizi lungo la tua strada?

Sicuramente sono stata giudicata, dai miei genitori e dai miei amici. Ho amiche che da quando ho intrapreso il mondo degli shooting non mi scrivono più. Altre sono contente. Forse la fotografia mi ha permesso di capire chi tiene davvero a me…

Hai dei “miti” per quanto riguarda la bellezza?

A livello maschile Leonardo Di Caprio, quando era giovane era davvero irresistibile. E nel mondo femminile, dico Marilyn Monroe. Caratterialmente era strepitosa, la finta sciocca che sapeva di piacere al mondo.

Un po’ il percorso che ti piacerebbe conseguire…

Nell’ambito della fotografia mi sono già sbilanciata: vorrei essere riconosciuta per la fotomodella seria, professionale e competente che sto cercando di diventare. E in ambito lavorativo, spero di essere un ottico di valore.

Insomma, la tua altezza non sarà più tra i tuoi pensieri…

Mi piacerebbe avere in camera una delle mie fotografie, riguardarmi e vedermi bella. E a quel punto, nemmeno il mio esser “piccola” sarà più un problema…


Curata da Alberto T.

SARA BARBATO, LA PERSONAL TRAINER A CUI PIACE SENTIRSI BELLA. Di Alberto T.

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Questa è la storia di una ragazza a cui la vita non ha mai regalato nulla. Di un’adolescente diventata presto donna, di una 18enne che ha imparato presto a conoscere l’odore della fatica. Quella di Sara Barbato non è una storia come un’altra. È il racconto di una personal trainer a cui piace il mondo dello fotografia, di un’atleta che non disdegna il gusto dell’estetica. Ma è anche l’avventura di una mamma che ha sfruttato la gioia di un figlio per rimettersi in gioco, per vincere sfide inedite. Ecco perché Sara Barbato non è una ragazza, una fotomodella e una personal trainer come tutte le altre. Muoversi e sperimentare sono due risorse che stanno nel suo dna. Non chiedetele di stare ferma, in palestra come sul set o nella vita reale. Un’esplosione di energia che si vede già nel suo curriculum. Una lunga lista di esperienze ad appena 24 anni di età da fare invidia alle 40enni frustrate. Il bisogno, quasi vitale, di vivere quotidianamente qualcosa di nuovo. Sarà per quello che, nei giorni scorsi, ha studiato notte e giorno per ottenere nuove certificazioni legate al fitness, il settore in cui sta crescendo. Sarà per quello che fra una commissione e l’altra si diverte a mettersi in posa davanti all’obbiettivo di un fotografo. Sarà per quello che in strada non passa – e non vuole passare – inosservata. Il fisico conta, eccome se conta. E per lei, che lavora sugli altri per modellarlo a piacimento, il dettaglio fa la differenza. Curve da sballo e un viso provocante. Ecco Sara Barbato.

Una ragazza che cura la propria immagine…

L’immagine conta, è il primo biglietto da visita durante un colloquio, una chiacchierata, un’uscita. Parlo da donna, ma anche da mamma e da personal trainer. La cura del corpo, al giorno d’oggi, è diventata un’esigenza. E poi si sa: mens sana in corpore sano.

Cosa fa Sara Barbato per tenersi così in forma?

Palestra, tanta palestra. Ogni giorno, per più ore al giorno. Ho voluto rimettermi in forma dopo aver avuto mio figlio. Ho voluto scommettere su me stessa, per sentirmi bene con me stessa e con gli altri. A distanza di qualche anno, posso dire di avercela fatto. Oggi il mio corpo mi soddisfa, anche se serve allenamento e costanza. Qualche rinuncia fa il resto: alimentazione sana, niente alcol e niente fumo fanno la differenza.

Ecco dove sta l’elisir dell’eterna bellezza…

Diciamo che per sentirsi belle, si deve essere in armonia con se stesse. Mi piace sentirmi apprezzata e guardata, in strada pur senza essere appariscente so che un fisico come il mio può non passare inosservato. Per una donna è sinonimo di stima. Ed è per questo che mi sono buttata nel mondo della fotografia.


Un mondo dove l’immagine è tutto…

È vero, ma molto lo si costruisce con uno sguardo, una posa, un ammiccamento. La fotografia è sinonimo di emozione, riuscire a trasmettere un senso di serenità, di positività o di sensualità significa aver colpito nel segno.

La tua esperienza riguarda set in studio e in esterna.

La fotografia mi piace, e nella vita adoro sperimentare. Questi due elementi, combinati assieme, mi danno la possibilità di giocare davanti all’obbiettivo. La fotografia è una passione, anche se non disdegnerei trasformarlo in un lavoro. Chissà mai che un giorno…

Magari, si potrebbe pensare di unire la palestra alla fotografia…

È il mio sogno! Poter scattare per centri fitness, magari promuovendo qualche nuovo macchinario, sarebbe allo stesso tempo un incredibile punto di partenza e uno straordinario traguardo. Chissà se arriverà mai l’occasione giusta… Di certo c’è che, per la persona che sono, mi sono sempre posta dei limiti oltre cui non voglio andare: il corpo si può svelare con un semplice accavallo di gambe, non è necessario essere nude. Quella non è più sensualità, diventa altro…

Lontana dal set, che ragazza è Sara Barbato?

Una persona normalissima, sempre alle prese con mille impegni e indaffarata più che mai, che nel suo quotidiano lavora, fa da mamma ad un figlio speciale e qualche volta ama sognare ad occhi aperti. Chi pensa di ritrovarsi davanti una fotomodella altezzosa si sbaglia di grosso: per me i set sono uno spasso…


Curata da Alberto T.

“SOLO!”: STEFANO BOLLANI IN CONCERTO AD AREZZO. Di Francesco Vignaroli

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Auditorium Arezzo Fiere e Congressi. Martedì 12 gennaio 2016

Funambolico, virtuoso, pirotecnico, ironico e, soprattutto, assolutamente imprevedibile: Stefano Bollani. Non ci credete? E allora, ditemi chi altro riuscirebbe a mescolare insieme Per Elisa, Sandokan, Ufo robot, Summertime, Paolo Conte, Battiato, Scott Joplin e chi più ne ha più ne metta, ottenendone un cocktail (analcolico, mi raccomando!) così gustoso che non si vorrebbe mai smettere di bere?!
Ma partiamo dall’inizio. Il pianista si è presentato al pubblico aretino -come si suol dire- “in splendida solitudine”, accompagnato solo da un pianoforte classico e da uno elettrico. Fedele al proprio proverbiale eclettismo, Bollani ha proposto una scaletta che ha dimostrato, nel caso in cui ce ne fosse ancora bisogno, tutta la sua sconfinata passione e conoscenza della musica, di ogni tipo di musica, senza limiti né pregiudizi. In apertura, tre doverosi omaggi ad altrettanti grandi artisti scomparsi: Life on Mars? di David Bowie, Putesse essere Allero (splendida) di Pino Daniele e Sopra i vetri di Enzo Jannacci, nella quale il nostro si è esibito anche al canto (ma ormai, per chi segue Bollani, non è certo una novità). Proseguendo, l’artista ha alternato composizioni proprie (tratte principalmente dall’ultimo album Arrivano gli alieni, 2015) a esecuzioni di brani altrui, operando in alcuni casi accostamenti tanto inimmaginabili quanto plausibili. Così, ecco che La danza ritual del fuego di De Falla si è trasformata, all’improvviso, in Microchip, spiritosa canzone in napoletano scritta dallo stesso Bollani per lamentare “L’INVADENZA DELLE NANOTECNOLOGIE” (Bollani dixit); miglior sorte non è toccata -lo dico con ironia “bollaniana”- alla classica Someday my prince will come, ritrovatasi nei panni rock di Sunshine of your love dei Cream. Spazio anche per una breve parentesi sudamericana, con Gato, brano argentino di Julian Aguirre risalente agli anni ’20, e con Fejolada completa di Chico Buarque. Il concerto è stato poi impreziosito da un brano inedito e ancora senza titolo, che l’artista ha provvisoriamente voluto chiamare Arezzo…salvo poi, a fugare immediatamente ogni sospetto di piaggeria, chiarire: “NON FATEVI ILLUSIONI: IERI SI CHIAMAVA NAPOLI…”. Ho riportato questo piccolo aneddoto perché esprime efficacemente l’approccio giocoso, ironico, sdrammatizzante e confidenziale col quale Bollani vive la sua professione di musicista, riuscendo, quando è sul palco, a entrare perfettamente in sintonia col pubblico e a instaurare con esso un rapporto di complicità (come un vecchio amico che ti fa l’occhiolino dopo una battuta), cosa puntualmente verificatasi anche in questa serata aretina da “tutto esaurito”. Quanto accaduto durante il bis–vedi l’accenno nell’introduzione- è un ulteriore riprova di ciò: munito di carta e penna per prendere nota, Bollani ha invitato il pubblico a proporre i brani da eseguire. Per far fronte al diluvio di suggerimenti, alcuni a dir poco improbabili (all’invocazione“I PIRATI DEI CARAIBI!” Bollani ha dovuto allargare le braccia e rispondere: “I PIRATI DEI CARAIBI NON LA CONOSCO, MI DISPIACE…”), piovutigli addosso da ogni dove, l’artista ha deciso di cucire insieme tutti i brani richiesti, improvvisando un’improbabile suite/medley degna di un juke-box impazzito. E così, per una decina di minuti circa, senza perdere nemmeno per un momento il filo del discorso, Bollani ha frullato insieme Per Elisa, Ufo robot, Goldrake, Sandokan (!), El choclo, Bandiera bianca di Battiato, The entertainer di Scott Joplin, Pianofortissimo di Carosone, Summertime, l’ormai celebre imitazione di Paolo Conte (un medley nel medley,con un mix delle sue canzoni più celebri) e altro ancora. Il tutto, come se non bastasse, eseguito con uno stile “alla” Michael Nyman di The piano
Con ciò, e mi rivolgo a chi non lo conoscesse ancora, non vorrei che ci si facesse di Bollani un’idea sbagliata e lo si considerasse come  un virtuoso esibizionista che cerca l’applauso facile con trovate ad effetto: al di là dei giochi di prestigio e delle goliardate, stiamo parlando di un artista di fama mondiale, uno dei più importanti e amati pianisti jazz (e non solo) dei nostri tempi, uno che anche quando scherza fa sul serio, eccome! Il concerto aretino, nella sua ora e mezzo circa di durata, ha regalato momenti di grande musica, come testimoniato dall’incontenibile entusiasmo del pubblico. Al termine della folle cavalcata finale Bollani ha pensato bene di uscire ma, richiamato ancora una volta a furor di popolo, ha dovuto concedere un “bis del bis”, stavolta in modo convenzionale, proponendo la sua recente Arrivano gli alieni, gradevole canzone pop che racchiude in sé tutta l’ironia dell’ autore, e chiudendo in bellezza con lo standard Tea for two. Oltre al plauso di pubblico e critica (almeno per quanto riguarda il sottoscritto), l’artista si è portato a casa pure un premio intitolato al grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli, ricordato con un breve filmato prima dell’inizio del concerto.

Importantissimo avviso ai naviganti: visto il clamoroso successo della serata e visto il gran numero di persone che non hanno potuto assistere al concerto perché non c’erano più biglietti disponibili, l’Associazione Amici della Musica Arezzo, organizzatrice dell’evento, ha deciso di concedere il bis invitando Stefano Bollani per una graditissima replica domenica 24 gennaio. Ma, come avrebbe detto l’indimenticato Corrado, non finisce qui: la grande musica tornerà di nuovo protagonista all’Auditorium Arezzo Fiere e Congressi il prossimo 27 gennaio, con il concerto del duo Paolo Fresu/Daniele di Bonaventura, organizzato ancora dall’Associazione Amici della Musica nell’ambito della prestigiosa stagione concertistica 2015/2016 che ha già visto la partecipazione, tra gli altri, di Salvatore Accardo e Nicola Piovani.


Francesco Vignaroli

SE LA POLE DANCE E’ DISCIPLINA DA… MAMME. Di Alberto T.

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Esibizioniste un po’ bisogna esserlo, altrimenti si rischia di mollare il colpo dopo poche lezioni. Sensuali non guasta, “anche se la sensualità sta negli occhi di chi guarda”. Sportive lo si diventa, se non altro perché tre allenamenti a settimana bastano e avanza per tonificare qualunque corpo. E se poi si è mamme, beh questo può persino cambiare la vita. Se pensavate che la Pole Dance fosse “cosa” da ragazzine, siete fuori strada. E se immaginavate che fosse un ballo da scantinato di periferia, siete rimasti indietro nel tempo. Oggi, ballare Pole dance va di moda più che mai, tanto che la disciplina ambisce ad entrare nelle Olimpiadi. E a buttarsi sono soprattutto donne dalla trentina in su. Magari mamme. Donne della porta accanto che, infilato top e coulotte, ballano attorno al palo. Irene Gollin ne ha fatto una “malattia” tanto da esser passata da allieva a maestra, Stefania Ongaro è sulla buona strada per seguire le strade della sua mentore. Cosa le accomuna? Qualche decine di ore a settimane passate nella Palestra di via Mentana a Monza nello Studio Pole Dance (www.studiopolemonza.com), l’essere un pizzico egocentriche, vivere la pole dance come una sfida ed essere mamme. Già, donne con un figlio, rispettivamente di 5 e 6 anni. Se a qualcuno suona strano, ecco la loro storia. “Siamo persone normali – scherzano – entrambe ci siamo buttate in questo mondo per recuperare una parte di noi stesse. Non ci sentivamo bene con noi stesse ed ora siamo in splendida forma, fisica e mentale”. Come loro, in Italia il numero è in costante crescendo. 

Basta pensare che, nella realtà di Monza, le iscritte sono passate da qualche decina a più di 140, di cui solo il 10% ha meno di 18 anni e una dozzina supera i 55 anni di età. “Scelgono la pole dance perché qui trovano qualcosa che regala un senso di sicurezza e di appagamento con se stesse, è una disciplina che ti fa sentire forte e bella, ti costringe a guardarti e accettare il tuo corpo”. Nata in Oriente e sviluppatasi negli States, in Italia la Pole Dance è sbarcata ad inizio Millennio. Un lasso di tempo forse troppo ridotto per smarcarsi dalla lap dance che lancia l’immaginario verso altri scenari. “Ma la volgarità sta negli occhi di chi guarda e nei contesti in cui la si esegue. La nostra Scuola effettua spettacoli di Pole Dance fra i tavoli delle pasticcerie e nelle piazze davanti a mamme e bambini. E i nostri figli sono orgogliosi di spiegare ai loro compagni che noi balliamo sul palo”. 

Nulla di cui vergognarsi. Sarà perché Irene ha nelle vene lo sport e il movimento, oppure perché come Stefania tante donne scelgono la pole dance per riprendere in mano il loro corpo, specialmente dopo una gravidanza. “Non ci siamo mai sentite volgari, abbiamo provato per gioco a sentirci sensuali. La verità è che questa avventura ci ha dato amicizia, nuove occasioni per uscire, pace col nostro corpo e tonicità”. Già, perché l’aspetto sportivo non manca. Chi pratica Pole a livello semi-professionale, o chi la insegna, si ritrova con spalle grosse e vita sottile. Un “triangolo rovesciato”, come lo chiamano in gergo, in cui i muscoli si delineano e lo specchio si trasforma da nemico in amico. “All’inizio non viene nulla, normale che sia così – aggiunge Irene – in più, per avere maggior attrito col palo, nei primi mesi bisogna muoversi con quanta più pelle nuda, il che significa indossare solo top e pantaloncini. Col lavoro, però, il risultato arriva e le soddisfazioni ripagano la fatica”. Traguardi da tagliare ad ogni età, perché non esiste il momento giusto per iniziare. Dipende tutto, da se stesse e dall’occasione. 

“Se vuoi sentirti forte e bella, non c’è età per la Pole – prosegue Stefania – forse per una donna, il post parto può rappresentare il punto da cui ripartire per ricostruire un benessere fisico e mentale”. Si parte da qui, da una ricerca interiore, per poi costruire movimenti, figure, partecipare ai contest sparsi sul territorio italiano. E, proprio da Monza, Irene Gollin ha fatto partire il “dizionario” aggiornato della Pole Dance. Un sito web, www.poledancetionary.it, in cui sono racchiusi passaggi e movimenti nel tentativo di creare un linguaggio comune e radunare sotto un’unica dicitura le figure al palo. “Non solo un dizionario, ma soprattutto un motore di ricerca dei trick di PoleDance in base alla posizione di braccia, gambe e corpo.... per la figura che hai visto, ma di cui non conosci il nome”. Il segno che la disciplina sta crescendo. “Un tempo mi offendevo se la pole dance veniva paragonata alla lap dance – conclude Irene – invece sono semplicemente due cose diverse. Ho una sola certezza: la Pole Dance ti fa entrare in contatto col tuo corpo attraverso la mente. E, ti rende più sicura in ogni ambito del quotidiano”.   


Alberto T.

“La Strada”. Un grande “Quasi”. Di Daria D.

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Milano, Teatro Franco Parenti. 13 - 24 gennaio 2016

Una storia di suicidi amatoriali, un quasi dramma, una quasi commedia, un quasi racconto psicologico, insomma un Quasi, come del resto è tutto quello che voleva essere e fare Jack, Francesco Brandi, un quasi pittore, un quasi scrittore... che apre la scena, sotto la neve, alle prese con una catena da montare, e che naturalmente arriverà quasi a mettere, se non fosse che la presenza improvvisa di Paul, Francesco Sferrazza Papa, lo distrae e lo infastidisce e così quasidimentica perché sia lì, lui e il suo cane di pezza cui si rivolge come fosse quasi vero. Perché lui era venuto lì per suicidarsi, ma se hai intenzione di suicidarti che ti importa se la catena non si monta? E se ti occupi della catena bastarda allora sei proprio un suicida amatoriale!
Paul è il giovane bello e “dannato” della storia, che cerca di fuggire da un matrimonio cui è “costretto”, ma da chi? Ma perché? Un tipo così, che ha tutto nella vita, o almeno così appare agli occhi invidiosi di Jack, non avrebbe certamente problemi a stare con moglie e amante nello stesso momento, anche dopo il fatidico “Sì”, cosa che del resto ha fatto per anni. Insomma, fugge nella bufera di neve, e sulla sua strada incontra il poveraccio di Jack, che vorrebbe solo morire in pace. Comincia così una schermaglia di battute tra il giovane povero e incavolato e quello ricco annoiato e triste, dove vengono fuori molti cliché tipici di chi ha e di chi non ha. Ma poi “il chi non ha”, saputo che Paul conosce Roberto Baggio, il suo idolo di quando era teenager, dimentica l’idea del suicidio, lasciandosi tentare dalla prospettiva  d’incontrarlo il giorno del matrimonio di quello che ora sembra il suo più grande amico. Un po’ facile, no? Comunque, lascia la macchina in no man’s land, e sale su quella di Paul, accettando così la proposta di posporre di 24 ore la sua morte per incontrare l’idolo della sua vita, cui sembra più attaccato della fidanzata, che in fondo è una stronza che l’ha tradito. Ma anche Baggio l’ha tradito, sbagliando quel rigore ai mondiali del 1994 contro il Brasile. E allora, come la mettiamo? Ci vuole proprio un bel suicidio.
Per strada Paul sceglie, come addio al celibato, di fare una capatina dall’amante, mentre Jack aspetta in macchina. Ci pare un’ottima idea. All’arrivo nella villa di famiglia, Paul fa spogliare Jack dei suoi abiti da sfigato e gli passa un bell’abito da cerimonia, e così i due, elegantissimi, sono pronti per la cena con tutta la famiglia che ovviamente non sarà affatto sorpresa di vedere un nuovo ospite. Affatto? Jack incontra così il bel mondo, beve champagne, discorre con persone interessanti, mangia caviale, assapora il gusto dei soldi, fa persino amicizia con la cugina cicciona di Paul. Sembra un po’ la versione maschile di “My Fair Lady”. Stupito e contento, Jack decide così di cambiare opinione sulla vita, anzi sulla sua vita, e non denigra più nessuno dall’altra parte. Perché lui è un tipo dalle decisioni improvvise, quasiquasi rinuncia al suicidio. Anzi non quasi, ci rinuncia proprio, anche se Baggio era un'invenzione per allontanarlo dall'idea della morte. Mentre Paul, con gesto plateale, forse l'unico della sua vita, e che mi ero francamente aspettata, al pranzo nuziale si tira un colpo in testa con la pistola, che è un oggetto che hanno tutti, sia ricchi che poveri e che sanno usare quasi bene o forse per niente.
Jack piange la morte dell’amico e lo invidia di avere avuto il coraggio di essere andato fino in fondo.
Come debutto alla regia, il giovane Raphael Tobia Vogel ha scelto un testo che ci appare “vecchio”, un déjà  vu che non dice nulla di nuovo, anche se raccontato con un linguaggio divertente e non privo di humornero. Ma, per esempio, l’idea di introdurre il divo Baggio, invece che alleggerire la storia, ha l’effetto contrario, diventando troppo ripetitiva e poco efficace. Anche la trovata che i due si chiamino con nomi stranieri perché hanno una madre entrambi (!) di Liverpool non rende la storia meno italiana.
Alla fine ci chiediamo quale fosse il dramatic concept di quello che abbiamo visto, anche se era piacevole, gli attori bravi, soprattutto Francesco Sferrazza Papa, le idee registiche interessanti sui cambi di scena, il tempo che passa, l’ambientazione. Ma il tutto rimane un quasi...
Rifugiarsi sui classici è sempre o quasi sempre una garanzia, lavorare su nuove drammaturgie è un rischio, che può andare a segno oppure fallire, anche se la colpa, come in una coppia  sempre fifty/fifty. Ma ben venga il rischio, gli errori fanno crescere, se si è umili e sensibili abbastanza per capirli e cercare di superarli.
Ti aspettiamo alla prossima regia Raphael, la vita è lunga e l’arte anche, non esiste il tutto e subito, o forse esiste solo nel giardino di Paul. Ma quello era solo una finzione.

Daria D.


Per strada
di Francesco Brandi
regia Raphael Tobia Vogel
con Francesco Brandi e Francesco Sferrazza Papa
scene e costumi di Andrea Taddei
video di scena Cristina Crippa
assistente alla regia Gabriele Gattini Bernabò
direttore dell'allestimento Lorenzo Giuggioli
Produzione Teatro Franco Parenti
Prima nazionale
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