Quantcast
Channel: Corriere dello Spettacolo
Viewing all 298 articles
Browse latest View live

“GOSPODIN”, UN DON CHISCIOTTE ANTICAPITALISTA. Di Francesco Vignaroli

$
0
0

Castiglion Fiorentino, Teatro Comunale Mario Spina. Lunedì 18 gennaio 2016

Germania, più o meno ai giorni nostri. Gospodin ha deciso di vivere “UNA NUOVA FORMA DI VITA” (sic) e di “AFFERRARE IL CAPITALISMO PER LE PALLE”, voltando le spalle a una società di “BORGHESUCCI”. Fermo nel suo proposito, stabilisce un dogma in quattro punti che prevedono, tra le altre cose, la totale rinuncia al denaro e alla proprietà; per questo accetta di buon grado di farsi svuotare la casa dalla moglie che, essendosene andata, reclama per sé la mobilia; per questo, senza battere ciglio, presta il televisore a un amico artista per un’improbabile istallazione intitolata “Tempus fuckit” (!). L’unica privazione che non accetta è quella causatagli dagli uomini di Greenpeace, che gli hanno requisito il suo amato lama. Dopo aver ceduto alla moglie anche il letto, Gospodin si ritrova a dormire sulla paglia nel suo appartamento vuoto. Nonostante non abbia più un soldo, si rifiuta di lavorare, vivendo in totale emarginazione e proseguendo la sua crociata anticapitalista e antimperialista, deciso più che mai a non arrendersi al sistema.
Ma il diavolo ci mette lo zampino. Come si dice: “Se Gospodin non vuole i soldi, allora i soldi vanno da Gospodin”… No, il detto non è proprio così, ma pazienza… Dunque, il nostro si inguaia quando accetta di custodire in casa una valigetta piena zeppa di denaro (dalla provenienza, diciamo così, dubbia) per conto di un amico; peccato che quest’ultimo, per via di un (ehm) incidente di percorso, non possa più venire a riprendersela. Dopo il primo errore, cioè aver preso la valigetta, Gospodin ne commette un secondo: mostra i soldi alla moglie, che spiffera tutto a destra e a sinistra. In men che non si dica, il nostro povero idealista si ritrova la casa invasa da una processione continua di parenti (la moglie e la madre) e amici bisognosi di un prestito. Gospodin resiste stoicamente (non toccherà né cederà quello sporco denaro per niente al mondo!) fino a che la notizia giunge alle orecchie della polizia…Come va a finire? Che Gospodin trova la libertà e la società ideale proprio in prigione…

Gospodin è una tragicomica parabola anticapitalista e anticonsumista, in cui si ride e si riflette seguendo le disavventure di uno sgangherato anti-eroe idealista, al tempo stesso tenero e grottesco nella sua coerenza estrema. Lo spettacolo è nel complesso gradevole ma un po’ troppo lungo, e l’assenza dell’intervallo, in questo caso, non depone a suo favore. Il ritmo è un po’ discontinuo, e a scene incisive e divertenti se ne alternano altre piuttosto inconcludenti e scialbe. Belle le scenografie. Buona la prova dei tre attori, con un Claudio Santamaria che, però, non brilla certo per espressività.

Chiudo con un sentito “BENTORNATO!” al Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino, ripartito alla grande con la presente stagione teatrale 2015/2016 (per info: officinedellacultura.org o toscanaspettacolo.it) dopo una lunga “pausa di riflessione”.

Francesco Vignaroli


di Philipp Lohle
regia: Giorgio Barberio Corsetti
con: Claudio Santamaria, Federica Santoro e Marcello Prayer

Si ringrazia Officine della Cultura

"Processo, morte e santificazione di un Pulcinella che non voleva portare la maschera". Di Paolo Leone

$
0
0

Roma, Teatro Ambra Garbatella (Piazza G. da Triora 15). Dal 18 al 20 gennaio 2016

In scena per soli tre giorni al Teatro Ambra Garbatella, la messa in scena di questo che è il primo testo (mai rappresentato) scritto da Davide Sacco, emergente ed interessantissimo autore, ha sfidato l’onda banale del facile, dello spettacolo accomodante e appiattito su tematiche scontate. Non poteva essere altrimenti, dal creatore di quel Piccolo e squallido carillon metropolitano, pièce ammirata l’estate scorsa nella rassegna del Fontanone Estate. E’ un Pulcinella dai vaghi sentori pirandelliani, quello fuoriuscito dalla sua penna e dal bel lavoro di adattamento e regia di Donatella Barbagallo, altra speleologa del teatro, che non si accontenta della strada facile. Da due teste così, è nato uno spettacolo intelligente, divertente, dalle sfumature che attingono alla commedia dell’arte, al melodramma, al “nonsense virtuosistico” per dirla con la regista. Un sogno, un gioco, un processo ai  camuffamenti di tutti noi. Un giudice, due avvocati e i testimoni via via chiamati davanti al povero Pulcinella, ingabbiato tra le corde tese dalle sue stesse maschere, surreale magia del teatro che analizza il tentativo di liberazione dell’uomo, forse vano, e lo fa giocando nelle profondità dell’animo. Allusioni, stilettate, commozione, una farsa sulla nostra società e anche sull’ambiente del teatro e di quei critici che si parlano addosso senza nemmeno osservare.
Eloquente il personaggio interpretato dalla stessa Barbagallo, sempre con gli occhi chiusi, a sputar sentenze a destra e manca, inquietante e corvino. Anche nei momenti più onirici e complessi (il personaggio della Matrona, di struggente poesia), non si perde mai il contatto con la ricchezza dei significati e di un lavoro che lascia il segno senza annoiare, con un bel ritmo. Spettacolo piacevole, impegnato e profondo ma che arriva al cuore dello spettatore con il sorriso. Un lavoro accurato, anche nei costumi e nella scenografia, scarna ma suggestiva, che ha permesso di assistere a tre serate di bel teatro. Toccante il finale, in cui il monito sul pericolo di accettare la bruttezza e farsi mettere una maschera, arriva dritto al cuore con quel grido…”Attenzione, popolazione!” di antica memoria. Bravi tutti gli interpreti.

Paolo Leone


Processo, morte e santificazione
di un Pulcinella che non
voleva portare la maschera
Di Davide Sacco; Con D. Barbagallo, G. Cancelli, S. Chiliberti,
C. Della Rossa, S. Flamia, G. Abramo, B. Monico e V. Palma.

Adattamento e Regia di Donatella Barbagallo

L’IDENTITÁ COME UNA MASCHERA: IL "FU MATTIA PASCAL" DI TATO RUSSO. Di Sara Bellebuono

$
0
0

Trento, Teatro Sociale. Dal 14 al 17 gennaio 2016

Il fu Mattia Pascal di Tato Russo, andato in scena al teatro Sociale di Trento dal 14 al 17 gennaio 2016, assume quasi le caratteristiche di un thriller. Lo spettacolo è tratto dal celebre romanzo che Luigi Pirandello pubblicò nel 1904, in un periodo travagliato della sua vita. Le preoccupazioni economiche e l’aggravarsi dei problemi psichici della moglie Antonietta, segnarono pesantemente l’autore, che riversò il suo pessimismo nelle sue opere. Nel romanzo, il suo primo grande successo, ritroviamo le tematiche che domineranno la produzione letteraria di Pirandello: l’inettitudine dell’uomo contemporaneo, la sensazione di vuoto che lo tormenta, l’inconoscibilità del reale.
Possiamo dunque immaginare quanto sia difficile mettere in scena un’opera così complessa. Già due registi hanno recentemente affrontato quest’opera a teatro: Tullio Kezich nel 2004 (con Massimo Dapporto nella parte di Mattia Pascal) e Stefano Mecca nel 2008, che intitolò lo spettacoloIo sono la tua pazzia.
Mantenendo il linguaggio dell’autore, Tato Russo (che interpreta anche la parte di Mattia Pascal) ha realizzato uno spettacolo semplice, originale e “popolare”. Assistiamo infatti, ad un vero e proprio “viaggio nella memoria” del protagonista. Una voce fuori campo introduce gli episodi salienti della vita di Mattia Pascal e trasporta il pubblico nella sua anima.
Ho il dubbio di non aver vissuto affatto”, afferma Mattia Pascal nella prima scena. Egli è un bibliotecario di Miragno, sposato con Romilda (Carmen Pommella) dalla quale ha un figlio, e portato alla rovina da Batta Malagna (Peppe Mastrocinque), l’amministratore delle ricchezze lasciategli dal padre. Mattia però, è innamorato da sempre di Olivia (Katia Terlizzi), moglie di Batta Malagna,. Oppresso dalla sua miserabile vita, Mattia Pascal decide di fuggire. Giunto a Montecarlo diventa ricco giocando alla roulette. Dopo alcuni giorni legge sul giornale la notizia del ritrovamento di un suicida, erroneamente identificato dalla suocera come “Mattia Pascal”. Per l’uomo è l’inizio di una nuova vita: cambia look, si fa crescere i baffi e assume una nuova identità, quella di Adriano Meis. A Roma è ospite della pensione del signor Paleari (Francesco Ruotolo), che ha una figlia, Adriana (Katia Terlizzi), della quale Mattia si innamora ricambiato. Se da una parte “Adriano Meis” si sente attirato dalla ricerca di una nuova vita, dalla libertà e dalla possibilità di vivere come aveva sempre desiderato, si renderà conto ben presto dell’impossibilità di un’esistenza al di fuori della legge. Mattia decide quindi di inscenare un nuovo finto suicidio, lasciando una lettera di addio alla povera Adriana. Tornato a Miragno dalla sua famiglia, scopre che tutto è cambiato: Romilda si è risposata e ha una figlia, i suoi compaesani lo emarginano. A Mattia resta solo il suo lavoro in biblioteca, dove trascorre le giornate a scrivere la sua biografia.
Come si accennava in precedenza, la messinscena è molto particolare. Gli attori recitano più parti e ipersonaggi non entrano in scena, sono già sul palco: come in un sogno essi vengono portati in vita attraverso un gioco di luci ed ombre, un espediente ben riuscito grazie alla scenografia essenziale, ma di grande effetto: su uno sfondo nero si stagliano i vari arredi (un tavolino, delle sedie, uno specchio, uno scrittoio e un letto) coperti da teli neri che vengono fatti scivolare ad ogni cambio di scena.
Alcune parti dello spettacolo meritano una particolare attenzione. La terza scena del primo atto si concentra su Mattia Pascal e su tre donne che hanno segnato la sua vita: Romilda, la suocera (la “strega”, interpretata da Caterina Scalaprice), che non nasconde l’astio nei confronti di Mattia, e sua madre,succube della suocera del figlio, gracile, malata, forse la più autentica forma di tenerezza nella vita di Mattia Pascal. Questa scena è emblematica perché rappresenta uno dei motivi che spinge l’uomo a fuggire: le continue vessazioni della suocera, che, dopo la morte della madre e del bambino avuto da Romilda, lo definisce “assassino”, riecheggiano nella mente del protagonista e nell’oscurità del palco.
Anche il signor Paleari è un personaggio di rilievo. In una discussione con Mattia, l’uomo espone la “filosofia del lanternino”, secondo la quale l’uomo a differenza degli altri esseri viventi, ha la capacità di “sentirsi vivere”e ha coscienza del proprio vissuto. Secondo Paleariil lanternino rappresenta il sentimento umano alimentato da illusioni di fede, senza del quale rimarrebbe solo il buio e l’angoscia.
Nello spettacolo gioca un ruolo importante anche la “maschera”,come nella scena in cui Silvia Caporale (Marina Lorenzi) paragona Andriano Meis ad un attore mascherato e gli consiglia di “assumere un’ altra faccia” tagliandosi i baffi. Nell’ultima scena del secondo atto Mattia, ormai ignorato da tutti e rassegnato ad essere il fu Mattia Pascal, è di fronte alla sua tomba: tutti i personaggi sono sul palco con il volto coperto da una maschera, simbolo di finzione scenica, ma soprattutto di ciò che viene imposto dalla società che ci condanna ad essere noi stessi.

Sara Bellebuono


PRODUZIONE: T.T.R. IL TEATRO DI TATO RUSSO
con Tato Russo, Renato De Rienzo, Massimo Sorrentino, Katia Terlizzi, Salvatore Esposito, Marina Lorenzi, Caterina Scalaprice,Carmen Pommella, Peppe Mastrocinque, Francesco Ruotolo, Lorenzo Venturini.
regia Tato Russo
scene Tonino Di Ronza
costumi Giusi Giustino
musiche Alessio Vlad

luci Roger La Fontaine

Antonio Carfora, giovane orgoglio del cinema partenopeo. Di Claudia Conte

$
0
0

Care lettrici e lettori del Corriere dello Spettacolo,
in questo freddo giorno di gennaio intervistiamo un giovanissimo attore napoletano, già conosciuto dal grande pubblico vista la sua partecipazione ad importanti progetti cinematografici, oggi a Roma per un importante provino. Antonio Carfora, 12 anni, segni particolari: simpaticissimo!

Ciao Antonio, iniziamo parlando dei tuoi esordi...

Ho iniziato a studiare recitazione all'età di sei anni grazie a mio nonno Salvatore che mi ha iscritto ad un corso di recitazione a Napoli. Dopo poco ho girato il mio primo film "Pupetta, la ragazza con la pistola", produzione Ares Film, interpretavo un bambino di strada. Non ricordo molto di questa esperienza perchè ero molto piccolo...

Che cosa significa essere attore secondo te?

Secondo me un bravo attore deve saper attirare il pubblico con il suo carisma!

Antonio, la tua famiglia ti ha sostenuto nel tuo percorso nella recitazione?

Sì, la mia famiglia è molto importante, mi sostiene e mi sprona a studiare. I miei genitori Marialaura e Raffaele mi accompagnano sul set e sono il mio punto di riferimento.

Attualmente ti dividi tra la scuola e i corsi di recitazione. Come riesci a conciliare i due percorsi formativi? hai già progetti per il tuo futuro?

La mattina vado a scuola, frequento la seconda media, mentre il pomeriggio seguo i corsi di recitazione nella scuola di Napoli "La Ribalta" di Marianna De Martino che è anche la mia manager. Inoltre seguo lezioni individuali dall'attore Vincenzo Bocciarelli che stimo molto. Dopo le scuole medie vorrei frequentare il Liceo Scientifico, ma continuare sempre a studiare recitazione per diventare un bravo attore.

Pochi giorni fa ti abbiamo visto in tv nel cinepanettone "Indovina chi viene a Natale?" di Fausto Brizzi, produzione Medusa. Avevi un ruolo coprimario. Parlaci di questa importante esperienza

Nel 2013 ho girato questo film in cui interpretavo il ruolo di Gaspare, figlio di Carlo Buccirosso e Rosalia Porcaro. Sono stato tre mesi a Roma per le riprese. ho conosciuto tanti bravi attori come Abatantuono, Raul Bova, Bisio e la Capotondi. Mi sono divertito molto e ricordo che tra una scena e l'altra giocavo con la neve, fatta di carta e acqua... era estate e ovviamente la neve era finta!

Che emozioni provi quando sei sul set?

Sicuramente felicità, ma anche un po' di paura perchè mi vedranno tante persone. Sono molto disciplinato, studio e mi attengo alle direttive del regista.

La tua vera passione è il cinema, ma so che ti dedichi anche al teatro...

Ho partecipato a cinque spettacoli teatrali, tra questi "Cappuccetto rosso", in cui vestivo i panni del cacciatore. Mi piace molto il teatro perchè mi da la possibilità di interpretare ruoli al confine con la realtà...

Grazie Antonio per questa bella intervista! In bocca al lupo per  i tuoi progetti futuri!

Curata da Claudia Conte

“GLI AMORI DI MODI’”: AMEDEO MODIGLIANI VERSO IL FUTURO (1920-2020). Di Francesco Vignaroli

$
0
0

Arezzo, Galleria Comunale di arte contemporanea. Fino al 21 febbraio 2016

“QUANDO CONOSCERO’ LA TUA ANIMA DIPINGERO’ I TUOI OCCHI” (Amedeo Modigliani)

Nel 2020 cadrà il centesimo anniversario della morte del grande pittore e scultore italo-francese Amedeo Modigliani (Livorno, 1884 – Parigi, 1920). In vista di questa importante ricorrenza, l’Istituto Amedeo Modigliani di Roma sta organizzando un cammino di avvicinamento ricco di iniziative culturali, economiche e sociali per celebrare il Maestro e divulgarne la storia e le opere in tutto il mondo, attraverso mostre d’arte ma non solo: sono stati e saranno coinvolti anche altri ambiti artistici, come la musica, il cinema e il teatro (cito la pièce Modigliani e le sue donne, scritta e diretta da Angelo Longoni, che sarà a Perugia dal 5 al 7 febbraio prossimi), per un percorso multidisciplinare e multisensoriale nel segno di Modigliani. Il progetto più ambizioso e importante di questa “missione” dell’Istituto Modigliani è rappresentato senz’altro dall’allestimento, nel 2020, di una grande esposizione generale (con date e luoghi da definire) delle 322 opere, cioè l’opera omnia, a tutt’oggi attribuite al Maestro. Come realizzare l’obiettivo, tenuto conto che i dipinti di Modigliani sono sparsi ai quattro angoli del globo (Europa, USA, Brasile; Cina…), e che molti di essi appartengono a collezionisti privati a dir poco riluttanti anche solo a mostrarli in loco? Qui sta il colpo di genio: ricorrendo alla tecnologia! L’Istituto Modigliani, che detiene i diritti delle opere -tutte- dell’artista, ne ha autorizzato la riproduzione in alta definizione su speciali pannelli costituiti da un materiale simile alla vecchia pellicola fotografica; ogni copia rispetta il formato esatto dell’originale. Come sono state ottenute queste copie dei dipinti? In estrema sintesi, ogni opera è stata fotografata e poi ritoccata digitalmente per eliminare eventuali imperfezioni. Successivamente, a partire dal modello fotografico, alcuni pittori professionisti hanno realizzato sui pannelli copie identiche dei dipinti fotografati, rispettandone puntigliosamente ogni dettaglio (colori e sfumature compresi). In più, i pannelli sono dotati di una speciale retroilluminazione a LED che permette al visitatore di ammirare l’opera in tutto lo splendore dei colori e delle sfumature originari, cioè così come dovevano apparire prima che le inevitabili ingiurie del tempo facessero il loro corso.
Insomma: potremmo quasi affermare di trovarci di fronte a una visione diretta di “cartoline” dal passato, cioè quadri dipinti cent’anni fa che sembrano appena usciti dalla mano del pittore. La tecnologia a LED garantisce un tipo d’illuminazione incomparabilmente più efficace rispetto ai canonici fari e faretti esterni, che non di rado risultano insufficienti a evidenziare adeguatamente i quadri fin nei minimi particolari (come ho avuto modo di constatare di persona in alcune circostanze). 

Un’iniziativa, quindi, rivoluzionaria e pionieristica che, nella cosiddetta era digitale, potrebbe rappresentare il futuro della fruizione delle opere d’arte, cambiando per sempre il rapporto tra le opere stesse e il pubblico (un esperimento analogo è stato fatto anche con i quadri di Caravaggio), abbattendo ostacoli di tipo geografico (la distanza), logistico (il trasporto delle opere) ed economico (i costi delle assicurazioni e del trasporto). Inoltre, come detto poco sopra, questo sistema permette al pubblico di poter ammirare opere altrimenti inaccessibili perché appartenenti a collezioni private. Che dire di più? Personalmente, condivido in pieno l’iniziativa, sia per quanto riguarda l’esito artistico che le motivazioni su cui è basata.

L’allestimento aretino “Gli amori di Modì”, promosso dall’Associazione Culturale Editebro (in collaborazione con Comune di Arezzo e Istituto Amedeo Modigliani) e curato dal prof. Romano Boriosi, costituisce una gustosa e interessantissima anticipazione di quel che si potrà vedere tra quattro anni; si tratta, dopo il felice esordio a Napoli del maggio 2015, della seconda uscita pubblica delle opere di Modigliani in questa inedita e futuristica veste. Come ben indica il titolo, la mostra presenta al pubblico una selezione di opere –una quarantina di riproduzioni- appartenenti al periodo parigino (quello più importante e prolifico per l’autore, ossia gli anni ’10 del novecento) e riguardanti il tema principale dell’opera di Modigliani: le donne. Oltre a vari ritratti, in particolare dell’amata moglie Jeanne Hébuterne (1898-1920) e dell’ex fidanzata Beatrice Hastings (riguardo quest’ultima, cito almeno quello in stile picassiano del 1916), si possono ammirare alcuni nudi femminili, senza dimenticare il celebre Autoritratto. Lo stile essenziale dell’artista e la linea allungata e fluente del suo tratto – celebri le sue donne dai caratteristici lineamenti e colli affusolati- sono riconducibili all’antica tradizione italiana (il trecento senese in particolare), ma ricordano anche le maschere africane e dimostrano quindi l’enorme interesse di Modigliani per l’arte nera. L’influenza africana è evidente anche nelle sculture, in particolare nelle “cariatidi”, cioè teste di donna ispirate alle tipiche strutture architettoniche (colonne) dalle sembianze femminili utilizzate a sostegno di templi e monumenti nell’arte greca, ma anche in quella egizia. Per quanto riguarda l’opera del Modigliani scultore, la mostra propone alcune riproduzioni autorizzate realizzate nel 2003 sul modello, ovviamente, dei lavori originali.
Tornando alla pittura, Modigliani è stato definito “pittore dell’anima”. Questo perché nelle sue opere non si preoccupa di riprodurre fedelmente la realtà (mimesi), bensì di esprimere, attraverso uno stile semplice ed essenziale, lo stato d’animo e il carattere dei soggetti ritratti (espressività). Per questo Modigliani si concentra sui volti e dedica meno attenzione allo sfondo circostante, che spesso rimane indefinito. Sempre per questo motivo la critica ha paragonato la sua opera, nell’ambito dei generi letterari, alla poesia anziché alla narrativa: come la poesia, l’arte di Modigliani esprime emozioni, stati d’animo, sentimenti. Per quanto riguarda il motivo per cui a  volte i volti del Maestro hanno gli occhi “vuoti”, cioè senza pupille…vedere la citazione in apertura.

Ad arricchire ulteriormente un’offerta culturale già interessante, la mostra vanta alcuni disegni preparatori originali, oltre ad alcune litografie del 1983 che riproducono alcuni celebri dipinti di Modigliani; in più, varie fotografie del Maestro e note biografiche molto utili per comprendere il contesto in cui Modigliani ha creato le sue opere, cioè quella Parigi di inizio ‘900 capitale culturale d’Europa e sede delle principali avanguardie artistiche che hanno influenzato in maniera decisiva l’arte del “secolo breve”. Se ancora non bastasse, aggiungo che all’interno dell’area espositiva sono stati allestiti un laboratorio didattico per i più giovani (con relativo concorso per il lavoro migliore) dove imparare a disegnare nello stile di Modigliani, oltre a una sala audiovisivi dove poter ascoltare canzoni dedicate all’artista da vari musicisti (tra cui Patti Smith) e vedere spezzoni di documentari e film dedicati al Maestro.
Vista la positiva risposta del pubblico, la mostra, il cui termine era inizialmente previsto per il 31 gennaio, chiuderà il 21 febbraio.

Francesco Vignaroli


Un ringraziamento particolare a Carmine Mura

COME VIENE VIENE. Di Carlo inaugura Comicamente, rassegna al Teatro Alba Radians di Albano. Di Paolo Leone

$
0
0

Albano Laziale, Teatro Alba Radians. Giovedì 21 gennaio 2016

Inizia come meglio non poteva la rassegna comica al Teatro Alba Radians di Albano Laziale, cittadina tra le più attive nel campo della cultura tra quelle situate nel comprensorio dei Castelli Romani. Oltre al meraviglioso Festival che ogni estate propone quasi un mese di spettacoli per ogni gusto nel suggestivo spazio dell’Anfiteatro severiano, e alla stagione teatrale invernale che vede grandi nomi e compagnie fare tappa in provincia prima o dopo quelle nei più celebri teatri romani, ora è la volta di una frizzante rassegna all’insegna della risata e della leggerezza. Proposto da Papik Produzioni e Menti Associate, il primo appuntamento è stato il 21 gennaio con la corrosiva satira di Alessandro Di Carlo e il pubblico ha risposto con entusiasmo, più di trecento paganti per una serata atipica. Eh si, perché Di Carlo non è uno che lavora di fino, lui va giù pesante con la sciabola e la clava, picchia duro, provoca, inveisce, “rabdomante dell’animo altrui” come si definisce. Capta il malessere celato dal bon ton, scardina i pensieri che non si dicono, e la sua follia è il motivo della nostra risata. Caustico, forse eccessivo, ma  autentico, ha scelto la sua strada che non lo porterà mai in prima serata su raiuno, ma il suo pubblico lo segue, gli vuole bene e lui ripaga con affetto, senza salire sul palcoscenico ma aggirandosi tra le poltrone in platea, dove si svolge il suo show, come una chiacchierata tra amici. Pubblico di ogni età, dai dodicenni agli ottuagenari. E lui gioca con questo “incontro di civiltà”, fa ridere raccontando verità scomode che riguardano noi, mica chissà chi. I ricordi dell’infanzia, il paragone con i giovanissimi di oggi, lo sfaldamento delle famiglie che è prologo (tragico) della perdita della cultura che è tradizione e che si traduce in una identità che stiamo colpevolmente perdendo. Incita alla reazione Di Carlo, a non lasciarsi addormentare colpevolmente. Perché se qualcuno trama alle nostre spalle, noi siamo complici se accettiamo tutto passivamente. Il suo show, Come viene viene, schizza da un argomento all’altro come una pallina impazzita, ma non è senza senso. Tra una risata e le sue parolacce, tra un tuffo in un passato semplice di un’Italia in bianco e nero rinnegata e tradita, in fondo il monito è molto chiaro. C’è poco da lamentarsi….la causa del nostro malessere siamo noi. Stiamo come siamo. Per dirla con Alessandro: stamo come semo.
La rassegna proseguirà con altri tre appuntamenti: il 18 febbraio con Pablo & Pedro, l’8 marzo con i comici di S.C.Q.R. e il 21 aprile con il simpaticissimo Marco Capretti.

Paolo Leone


Albano Laziale, Teatro Alba Radians, 21 gennaio 2016
Papik Produzioni & Menti Associate presentano: Alessandro Di Carlo in Come viene viene.

Si ringrazia l’ufficio stampa della rassegna nella persona di Marina Luca.

DENISE MEROLLA, RADIO E TV DI GRAN… CARRIERA. Intervista di Alberto T.

$
0
0

La sua prima apparizione nel piccolo schermo risale ai tempi di Generazione X, lo storico programma condotto da Ambra Angiolini. Tanti altri ne sono seguiti, in qualità di pubblico o di protagonista, fino ad arrivare alla web tv e alla radio. Che fra Denise “La Denny” Merolla e i mezzi di comunicazione ci sia feeling, lo dimostra l’empatia con cineprese, microfoni e pubblico. Un habitat che continua ad esserle naturale nonostante abbia ripreso gli studi universitari, guardi da vicino il mondo della moda e pensi ad un futuro come igienista dentale. Ma il presente di questa ragazza di 30 anni, nata alle porte di Milano ed ora sbarcata ufficialmente all’ombra della Madonnina in compagnia del suo ragazzo, è fatto di studi di registrazione e ore di divertimento davanti alla telecamera. Una speaker della porta accanto…

Che, come detto, fin da piccola si è avvicinata al mondo della tv.

Da giovanissima ho partecipato al talk show presentato da Ambra, poi ho ricoperto il ruolo di pubblico in vari show televisivi, da “Stranamore” a “Che tempo che fa?”. Da allora non mi sono più fermata…

In sintesi, gli italiani dove hanno avuto modo di apprezzarti?

A 22 anni ho partecipato anche come concorrente all'Eredità, registrando ben 2 puntate, ed ho partecipato a un video musicale prodotto da Sky. Poi sono stata semifinalista di Miss Padania, a 26 anni ho preso parte a un video musicale dove interpretavo una ballerina di danza classica.

E poi, tre anni fa, il grande salto…

Ho iniziato a collaborare con due Web tv: Dsp television e Legnano Web Tv. Grazie ad entrambe ho avuto l'occasione di intervistare personaggi noti e mettermi in gioco davanti ad una telecamera. Ho avuto modo di intervistare quasi tutti gli speakers di Radio Deejay, Giacomo Poretti, Jiuliana Moreira, Edoardo Stoppa, Tullio de Piscopo…

E la tua ascesa non è finita qui…

Da due anni ho avuto la possibilità di realizzare uno dei miei sogni: la Radio! Anche se per ora è solo Web-Radio… Grazie al mio amico e socio Diego Trinetti, in arte Mago Diego, collaboro con lui nel programma MagicMoments in onda su OkRadio.it. Grazie a lui, ho potuto confrontarmi anche in questo contesto e mi è stata data la possibilità di presentare un evento con alcuni comici di Zelig. E' stato molto emozionante e divertente nello stesso tempo. Abbiamo i tempi giusti, è un bravissimo artista.

Aneddoti di questa tua vita mediatica?

Una merita di essere detta, successo mentre intervistavo Giacomo Poretti alla presentazione del suo libro qualche anno fa. Ho chiamato Giacomo col nome di… Aldo! La sua risposta è stata geniale: ‘Aldo è bravo a recitare, a scrivere no…’, e ci siamo messi a ridere entrambi... Che gaffe! Quando ci penso, rido ancora.

I tuoi inizi sono quelli di una hostess che sognava… la tv.

Faccio parte di questo “mondo” da tanti anni ormai. Ho lavorato per eventi e brand molto importanti, dal Milan ad Armani. Ogni evento ha la sua chicca, ne potrei raccontare un sacco... I più divertenti? Succedono sempre durante la settimana della moda a Milano. Oltre a vedere gente vestita in modo davvero buffo, si spacciano tutti per pseudo personaggi pubblici, fashion blogger e amici dello stilista.

Sei stata, e continui ad essere, anche fotomodella.

Con la fotografia ho un bel rapporto. Ho sempre amato stare davanti ad un obbiettivo fotografico. Posare mi viene naturale e fortunatamente sono anche molto fotogenica. Ma, sia chiaro, nella mia vita quotidiana sono una ragazza semplice, sorridente, che mette passione in tutto ciò che fa. Credo di essere una brava persona con pregi e difetti. Sono molto dolce, ma anche tanto testarda, simpatica e pretendo tantissimo da me stessa. Credo anche di essere molto istintiva.

Come ti piace apparire?

Mi piace vestirmi con uno stile accurato, un po' bambolina, sensuale ma mai volgare. Sto attenta agli abbinamenti e gli accessori sono sempre presenti. Amo le scarpe con il tacco, impazzisco per le calze. Prediligo vestitini e gonne, perché adoro le mie gambe… così posso valorizzarle!

Hobby e passioni?

La passione più grande è la musica, mi accompagna da sempre. Dal canto alla danza e ora in Radio. Da piccola ho preso lezioni di canto e ho avuto modo di partecipare a concorsi canori. La danza, altra passione, così come il teatro. Recitare è meraviglioso, le sfide e le soddisfazioni che ti offre il teatro, quando si recita sono uniche. Il palco è la casa più bella per un'artista. Come hobby ho la lettura e lo shopping!

Che immagine vuoi che esca di te?

Quella di una ragazza attiva, positiva, solare e volenterosa. Mi sento una persona molto energica, che ha sempre voglia di imparare cose nuove.

Dove vorresti lavorare?

Vorrei lavorare in un ambiente dinamico, che mi permetta di migliorare e di crescere professionalmente oltre che umanamente. Ovviamente, il massimo, sarebbe lavorare in una Radio a livello nazionale. Ma di strada ne ho da fare ancora.

Come ti vedi tra dieci anni?

Tra 10 anni mi vedo realizzata lavorativamente parlando e spero di avere la “fortuna” di continuare con le mie passioni. Mi vedo a fianco del mio attuale compagno Tommaso e con una sana e bella bimba da crescere.


Curata da Alberto T.

"Affatto Deluse-Che Strenna!", direttamente da Non è la Rai!

$
0
0

Dopo il grande entusiasmo suscitato dal primo CD per i 20 anni dalla fine di “NON E’ LA RAI”, le protagoniste del programma cult di Gianni Boncompagni tornano in studio di registrazione per i loro fan a dare anima musicale a nuove canzoni di quegli anni indimenticabili. Lanciato in anteprima su Nonelarai.it, ospita tante beniamine che hanno deciso di rincidere i loro pezzi dell'epoca; tra queste ricordiamo: Pamela Petrarolo, Francesca Pettinelli, Eleonora Cecere, Angela DI Cosimo, Sabrina Marinangeli, Miriam Calzolari e Monica Catanese. Il Disco ospita anche le vocalist e coriste che aiutavano le ragazze meno talentuose nei playback e partecipavano ai cori di tutte le canzoni. "Affatto Deluse-Che Strenna!"è acquistabile sul sito www.nonelarai.it, per far così un tuffo nelle sonorità anni ‘90 e riascoltare le voci delle ragazze tutto pepe di Non è la Rai!

“QUELLO CHE NON HO”: NERI MARCORE’ CANTA DE ANDRE’ E RICORDA PASOLINI. Di Francesco Vignaroli

$
0
0

Cortona, Teatro Signorelli. Giovedì 21 gennaio 2016

LA NUOVA INDUSTRIALIZAZIONEPRETENDE CHE NON SIANO CONCEPIBILI ALTRE IDEOLOGIE CHE QUELLA DEL CONSUMO. UN EDONISMO NEOLAICO, CIECAMENTE DIMENTICO DI OGNI VALORE UMANISTICO E CIECAMENTE ESTRANEO ALLE SCIENZE UMANE” (Pier Paolo Pasolini, dall’articolo Acculturazione e acculturazione contenuto in Scritti Corsari)

“CANTAMI DI QUESTO TEMPO L’ASTIO E IL MALCONTENTO DI CHI E’ SOTTOVENTO…” (Fabrizio De André, da Ottocento)

LA MAGGIORANZA STACOME UNA MALATTIA, COME UNA SFORTUNA, COME UN’ANESTESIA, COME UN’ABITUDINE PER CHI VIAGGIA IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA” (Fabrizio De André, da Smisurata preghiera)


Neri Marcoré racconta di aver scoperto gli Scritti corsari (raccolta di articoli polemici pubblicati dall’autore sul Corriere della Sera tra il 1973 e il 1975)di Pier Paolo Pasolini nel 1995, quasi per caso, nell’attesa dell’inizio di un concerto di Fabrizio De André. Da questa circostanza, forse, è nato lo spunto per l’ideazione dello spettacolo Quello che non ho in cui Marcoré, accompagnato da tre ottimi giovani musicisti, alterna l’esecuzione delle canzoni di De André a brevi riflessioni sull’attualità ispirate a Pasolini e ai suoi articoli “corsari”. A parte lo spunto autobiografico di partenza, cosa unisce “PPP”, uno dei massimi intellettuali italiani del ‘900, al grande “Faber”? Mi vengono in mente almeno un paio di elementi, più che sufficienti a giustificare l’accostamento: la libertà e il coraggio intellettuale di essere “contro” (contro il Potere, le ingiustizie, il pensiero dominante, l’omologazione…). Una scelta difficile, dolorosa e faticosa che ha causato a entrambi –soprattutto a Pasolini- non poche difficoltà esistenziali: è l’inevitabile prezzo da pagare in nome della propria coerenza e della propria indipendenza morale, prerogative irrinunciabili -quasi un’esigenza, un diritto/dovere- per una mente libera e orgogliosamente ferma nella propria volontà di autodeterminazione. Una volontà espressa tanto chiaramente negli scritti (e nei film) di Pasolini quanto nelle canzoni di De André.

Veniamo allo spettacolo.
Ottima la parte musicale: Marcoré, da vero e poliedrico uomo di spettacolo, tiene bene il palcoscenico non solo come attore ma anche come cantante, affrontando il repertorio di De André con voce sicura e appassionata (anche se un confronto con l’originale è, ovviamente, improponibile), supportato alla perfezione dai tre giovani compagni d’avventura. Arrangiamenti prevalentemente acustici e cori impeccabili rivestono le esecuzioni di una notevole forza emotiva, che raggiunge l’apice del pathos durante l’esecuzione di Dolcenera. In scaletta dieci canzoni, tutte appartenenti al De André maturo: Se ti tagliassero a pezzetti, Una storia sbagliata (dedicata a Pasolini), Ottocento, Don Raffaè, Quello che non ho, Khorakhané, Smisurata preghiera, la già citata Dolcenera, Volta la carta e, in conclusione, Canzone per l’estate. Tra un brano e l’altro, utilizzato come leitmotiv, si ascolta invece il recitato de Le nuvole.
Meno convincenti i monologhi sull’attualità: Marcoré mette un po’ troppa carne al fuoco, e saltando di palo in frasca effettua, non senza ironia e accenni satirici, un piccolo elenco dei mali del mondo (disastri ambientali, scandali bancari, consumismo, razzismo, nuova schiavitù, prostituzione minorile…) derivati dal capitalismo (“I BENI SUPERFLUI RENDONO SUPERFLUA LA VITA”), per dimostrare l’esattezza e la puntualità delle profetiche analisi di Pasolini negli anni ’70, rievocate tramite la lettura di brevi passi degli Scritti corsari. Per forza di cose, però, considerando l’ambito teatrale in cui viene trattata (lo spettacolo dura poco più di un’ora: impossibile rendere conto in così poco tempo di tematiche tanto complesse come, ad esempio, i concetti di sviluppo e progresso!), la speculazione pasoliniana esce notevolmente semplificata –forse il termine più appropriato sarebbe “ridotta”- e alcuni collegamenti tra gli Scritti corsari e il nostro presente appaiono un po’ forzati. Nobile intento, comunque, per un progetto ambizioso e interessante.

Francesco Vignaroli
                                        

liberamente ispirato all’opera di
Pier Paolo Pasolini
canzoni di Fabrizio De Andrè

con Neri Marcorè

Quello-che-non-ho-interna
voci e chitarre Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini
arrangiamenti musicali  Paolo Silvestri

drammaturgia e regia Giorgio Gallione
collaborazione alla drammaturgia Giulio Costa

produzione Teatro dell’Archivolto         

LA SUPERCASALINGA. Ridere per esorcizzare. Di Paolo Leone

$
0
0

Roma, Teatro Kopo (Via Vestricio Spurinna 47/49 – Metro A Numidio Quadrato). Dal 21 al 24 gennaio 2016

Ci sono quelle sere in cui vai a teatro e rimani sorpreso. A volte negativamente, altre (meno frequenti) in modo positivo. Al teatro Kopo devi saperti aspettare di tutto, sappiatelo, per l’ineusaribile curiosità artistica della sua direttrice e del suo fidato staff che non si accontentano dell’ovvio, dello scontato. E allora capita che vai a vedere La supercasalinga e rimani spiazzato, perché non è una commedia come le altre, magari divertente, ben scritta e ben interpretata. No, questo spettacolo è una forma d’arte diversa, non meno nobile del teatro di prosa. Roberta Paolini, l’interprete, è un concentrato di esilarante tecnica clownesca, frutto di prestigiosi studi nell’ambito del teatro fisico comico. Non dice una parola, si esprime (tantissimo) con suoni gutturali, mimica facciale straordinaria, situazioni chiarissime create ad hoc sul palcoscenico e dà vita ad un personaggio, la supercasalinga appunto, esilarante si, ma caricatura di una triste condizione nevrotica purtroppo ancora presente, più di quanto si immagini. Solitudini, subdoli decaloghi comportamentali atavici, resistenti al progresso. Un mondo tecnologico, di aspirapolveri computerizzate e prodotti detergenti di ogni risma, che ammiccano pericolosamente al mondo femminile, come mortifere sirene. Un Dio-pulizia da adorare con tanto di accensione di candele. Il personaggio interpretato ne La supercasalinga vive per l’ordine ed il pulito, fiero della sua efficienza, e intanto muore a se stesso, sommerso inconsciamente dal suo ruolo. Ma sotto quelle grigie spoglie pulsa il cuore di una donna, dietro il ghigno burbero batte il cuore e la voglia di vita di un essere umano e la ribellione è dietro l’angolo. Il finale in stile Broadway lo urla chiaramente, un’esplosione di vita incontenibile. Uno spettacolo atipico, insolito da vedere in un teatro, coraggioso da proporre in un cartellone. Ma il coraggio va sempre premiato. E’ come la voglia di nuove cose della supercasalinga. Voglia di vita.

Paolo Leone


Roma, Teatro Kopo (Via Vestricio Spurinna 47/49 – Metro A Numidio Quadrato). Dal 21 al 24 gennaio 2016

La Supercasalinga, di e con Roberta Paolini

Il Győri Balett al Teatro Toniolo di Mestre. Di Luca Benvenuti

$
0
0

Andato in scena il 21 gennaio 2016 al Teatro Toniolo di Mestre (VE)

Iván Markó fu primo ballerino del Ballet du XXe siècle di Maurice Béjart tra il 1972 e il 1979. Proprio nel ’79, ritornato in Ungheria, Markó fondò il Győri Balett con alcuni allievi del Magyar Nemzeti Balett. L’audace modernismo ereditato dal maestro fu punto di partenza imprescindibile per i nuovi lavori. Negli anni la compagnia divenne un’istituzione nel mondo della danza, praticando diversi generi, dal classico al contemporaneo. Per tutto gennaio il Győri Balett è in tournée italiana con Bolero e Carmina Burana.

András Lukács creò Bolero per il Wiener Staatsbalet nel 2012. In un’immaginaria sala nera una ballerina scandisce le prime battute, mostrando il movimento base su cui si inseriranno le altre variazioni, per poi far entrare il resto dei colleghi, una ventina tra uomini e donne. L’unione di elementi della ballroom e della danza moderna genera un effetto grottesco nelle intenzioni di Lukács, che sceglie movimenti sempre più serrati man mano che ci si avvicina al culmine. Non c’è alcuna trama, ma un palese desiderio estetizzante. Persiste a mio avviso una vena decadente e ironica nelle figure languide e accentuate quasi a dileggiare certe pose déco. I costumi neri di Mónika Herwerth, per tutti delle lunghe gonne con una leggera tournure, risaltano le carni bianchissime dei ballerini mettendone in risalto i fisici statuari. E’ un pezzo adatto a palcoscenici ben più ampi di quello del Toniolo perché le vesti, che col movimento si gonfiano, fanno confondere le linee e perdere la bellezza delle simmetrie. Sapendo quanto sia difficile superare lo storico Bolero di Béjart, ch’ebbi la fortuna di vedere al Teatro La Fenice nel 2005, il lavoro di Lukács rimane una piacevole invenzione.

Scenografia semplice, direi superflua, quella approntata da Youri Vamos per Carmina Burana. Uno schermo con proiettato un albero, che si apre e si chiude solo sulle note di O Fortuna, rimanda a una generica campagna ove si avvicendano i desideri d’amore e felicità di uomini e donne. Traspare nella coreografia di Vamos il dialogo amoroso tra i sessi, ora erotico, ora amicale, intriso d’una certa misticità che pare rievocare, musica vult, la scultura romanica – in Veris leta faciescoppie di ballerine si coprono il ventre in posa pudica per essere repentinamente scoperte da altre. Molto curate le linee di Tempus est iocundum, mentre si può discutere sulla scelta di bloccare la compagnia su O Fortuna, espediente che rompe la tensione drammaturgica. I costumi, anch’essi di Vamos, in tinte pastello verde e giallo sono prettamente riservati alle ballerine, perché i boys li indossano solo fino a Were Diu Werlt Alle Min per poi rimanere coperti, quasi in un Sacre, da minimali boxer color carne simulanti un’ideale nudità.

Lunghi applausi per tutta la compagnia decretano un ottimo successo.

Luca Benvenuti


Bolero
Musiche: Maurice Ravel
Coreografia: András Lukács
Assistente: Renáta Fuchs
Costumi: Mónika Herwerth
Disegno luci e scene: András Lukács, Attila Szabó

Carmina Burana
Musiche: Carl Orff
Coreografia, costumi, set: Youri Vamos
Assistenti: Joyce Cuoco, Zsuzsanna Kara, Alexej Afanassiev

Luci: Klaus Gärditz, Péter Hécz

Beckett e Pinter secondo Farau: un canovaccio del secolo breve. Di Chiara Cataldo

$
0
0

Parma, Teatro Due. Venerdì 22 gennaio 2016

PARMA (Scénario) - “Catastrofe,  il linguaggio della montagna,  il bicchiere della staffa,  il nuovo ordine mondiale” è la metafora del Novecento,  dell’inumano e il suo opposto che si incontrano e dove a trionfare è il primo. Sempre.  Il dramma,  per la regia di Massimiliano Farau,  è andato in scena ieri al Teatro Due di Parma, dove ci ha accolto un’aria da interrogatorio avvolta da un bagliore fioco tra gli sbuffi di fumo di un sigaro. Si incontra poi un fantoccio sbiancato e senza volto, privato di sé da quelli che lo manipolano.
 
Le quattro vicende trattano l’abuso di potere,  il rapporto manicheo tra infallibile e annientato:  il primo – che si autoproclama portavoce di Dio -  ama la morte degli altri pur odiandone la disperazione, è sadico, svilisce, sa di poter fare tutto quello che vuole, vieta, castiga e pulisce la terra dai “pezzi di merda che pensano” in nome della democrazia.  I perdenti invece non credono in “Dio” e nei loro adepti , annuiscono e dicono “Uccidimi”, non vogliono nulla perché non sono più.       

Vera interprete delle quattro opere è la parola: bistrattata, proibita,impossibile, pensata, morta o illogica, come quella che permetterebbe ai cani di presentarsi con il proprio nome. La parola è solo a senso unico, come quella di Orwell:  non c’è un dialogo, c’è sempre qualcuno che parla e qualcun altro che subisce.  Tutte le scene, tratte dalle opere di Pinter e Beckett, sono spezzate dal sistema binario di buio e luce,  quest’ ultima che si staglia su uno spazio minimale in bianco e nero le cui uniche pennellate di colore sono l’ocra di uno scotch – “il bicchiere della staffa”, anafora che detta il tempo alla scena - e il rosso degli sputi di sangue che colano dalle labbra tumefatte. Il What a wonderful world finale contraddice sapientemente  l’intero spettacolo: una canzone di vita dopo un elogio di morte.  

Chiara Cataldo


Con Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Luca Nucera,
Gian Marco Pellecchia, Bruna Rossi, Emanuele Vezzoli
e con Mattia Gambetta, Tommaso Vaja

scene Fabiana di Marco
costumi Gianluca Falaschi
luci Pasquale Mari
suono Andrea Romanini
regia Massimilano farau

PARASSITI FOTONICI di PHILIP RIDLEY. Recensione di Daria D.

$
0
0

Milano, Teatro Filodrammatici. Dal 21 Gennaio al 7 febbraio 2016

Cosa si può scrivere quando uno spettacolo è perfetto? Che è perfetto! Potrei fermarmi qui, con la mia recensione, altre parole sarebbero un di più, aggiungerei solo un caloroso  invito per il pubblico ad andare a vederlo.
Ma tranquilli, non sarò così parca di parole, né vi lascerò senza qualche commento extra. Sennò che recensione sarebbe, anzi, per meglio dire, che contributo sarebbe?
Prima di tutto, interessante e originale è la scelta di rappresentare il testo “Radiant Vermin” del drammaturgo inglese Philip Ridley, messo in scena per la prima volta a Londra nel 2015 e il cui humour, sì signori lo humour e l’ho scritto all’inglese e non all’americana humorè ancora molto e solo britannico,  facciamocene una ragione, e non importa quanto nero sia, qui pervade tutta la storia, con l' aggiunta di una fantastica visione della vita, il che è assolutamente strategicamente necessario, se vogliamo rafforzare concetti che si basano sulla vita reale. Quando la realtà non ci viene sbattuta addosso con crudezza e brutalità, facendoci sentire tutti in colpa, depressi dall’inizio alla fine, impotenti, meschini, cinici, ma assume una versione fantascientifica, favolistica, surreale, allora, le cose, paradossalmente, ci toccano di più, senza ferirci.
La realtà la vediamo tutti i giorni, ci opprime, ci fustiga, ci lascia senza parole, ci spaventa, ma se andiamo a teatro o al cinema, o se leggiamo storie che sappiano con un sorriso raccontarcela, usando ironia, gentilezza e intelligenza, allora, non solo abbiamo passato un po’ di tempo positivamente, ma ci rimarrà qualcosa in più che forse non ci aspettavamo.
Questa storia mi ha ricordato in qualche modo J.G. Ballard, anche se in Ridley temi come  la ricerca della felicità a tutti i costi, la sovrappopolazione delle città, il nuovo “Millennium” (titolo di un  romanzo di Ballard), i centri commerciali, la “pulizia” etnica, sono trattati con umorismo, sarcasmo, in forma di parodia. Ma l’effetto dei due scrittori, entrambi inglesi, sullo spettatore o lettore non cambia, ed è quello di raccontare la realtà dietro a sogni e incubi. Perché sicuramente questo Parassiti Fotonici è anche un incubo, quello che vivono Jill e Ollie, bravissimi Federica Castellini (forse una stellina in più) e Tommaso Amadio, una giovane coppia in attesa di un figlio, cui viene regalata, da una misteriosa Miss Dee, perfetta Elisabetta Torlasco, simpatica e subdola, un po’ agente immobiliare, un po’ Faust, un po’ Mary Poppins,  la “Casa dei sogni”. L’unico lato negativo è che la casa non ha acqua né luce, insomma ha bisogno di ristrutturazioni, ma tutto il resto è free of charge. Allora perché non accettare l’offerta? Alle ristrutturazioni ci penseranno con calma.
Poi, una notte, un barbone entra in casa, e Ollie accidentalmentelo uccide. Ma da questa “soppressione”, come per incanto, la cucina si trasforma: all’improvviso diventa la cucina dei sogni. Dopo uno shock iniziale, perché di assassinio si tratta, legittima difesa? chissà, Jill e Ollie, ci fanno un pensierino sopra, per il bene del bambino, s’intende, per la sua felicità: fare altre ehm… ehm.. ristrutturazioni, sopprimendo parassiti, gente inutile e dannosa alla società. Che c’è di male? Mors tua vita mea. Un po’ alla volta, forti dell’idea che il mondo in fondo non perderebbe nulla, i due simpatici criminali decidono di invitare  in casa dei barboni, dietro  la scusa di dare loro da mangiare, per  poi invece sopprimerli, in vari modi, ma quello che sembra più efficace è una bacchetta magica che rilascia una scossa elettrica. Geniale!
A poco a poco, la casa diventa una reggia, tutto splende, tutto è radiante o radiattivo...  La felicità è al settimo cielo, i sensi di colpa cancellati, tutto sembra facile, ora, tanto che si trovano ben presto vittime consapevoli o inconsapevoli, di  un' escalation di bisogni, perché enough is not enough.
È esattamente quello che succede nella società dei consumi: perché accontentarsi di una macchina quando ne puoi avere due, perché accontentarsi di un telefono serie 1 se puoi avere la serie 6, anzi 6 plus-over-super? Perché avere solo una casa, e non quella al mare e perché no anche in montagna? Ma per avere di più, sempre di più,  cosa sei disposto a fare? Lo sappiamo tutti cosa certa gente è disposta a fare. Ma Jill e Ollie hanno la scusante del bambino e noi forse facciamo il tifo per loro. Io sì. Sicura? Well…
La storia che ci viene raccontata è affidata principalmente alla recitazione e la regia  di Bruno Fornasari non si impone mai su di essa ma la segue, la incalza, la rende efficace con semplicità e intelligenza. Non ci sono momenti di vuoto, le battute si susseguono argute e divertenti, ti accalappiano nel loro vortice di umorismo e sorpresa. Bello vedere spettacoli che non si affidano all’esteriorità ma all’essenza concreta del teatro: saper raccontare. Punto e basta.
Enough is not enough. Perché magari nella prossima stagione ci piacerebbe vedere ancora rappresentato qualche testo di Ridley, questo drammaturgo contemporaneo che Fornasari ha fatto conoscere al pubblico milanese, che di sicuro è molto esigente ma che stasera è stato ampiamente soddisfatto.

Daria D.


Enough is never enough
Traduzione e regia di Bruno Fornasari

Con Tommaso Amadio, Federica Castellini, Elisabetta Torlasco

scene Aurelio Colombo
costumi Erika Carretta
musiche originali Massimiliano Setti
tecnica Andrea Diana, Enrico Fiorentino
assistenti alla regia Marco Rizzo, Chiara Serangeli
produzione Teatro Filodrammatici
PRIMA NAZIONALE
Teatro Filodrammatici Mlano, dal 21 GEN. al 7 FEB. 2016

Il Rossetti di Trieste mette in scena, in prima nazionale, “Doktoršuster” di Dušan Kovačević. Di Paola Pini

$
0
0

Trieste, Il Rossetti-Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Bartoli. Dal 12 al 31 gennaio 2016

Un chirurgo, il dottor Nikola Kos (Riccardo Maranzana) vive in bilico tra la professione medica, dalla quale è stato dimissionato e quella del calzolaio (šuster, appunto) che praticava da studente; trascina la propria vita incontrandosi e scontrandosi con la sorella Bella (Ester Galazzi), vedova del famoso cantante lirico Sergej Donski e la figlia Anna (Lara Komar), giornalista di cronaca nera, fidanzata da anni con Elcriso Stefanović (Andrea Germani), cantante lirico. Presenti nelle loro vite anche i due fratelli Brezdan: Branko, detto il Filosofo (Francesco Migliaccio), che avrebbe voluto insegnare filosofia, ma si trova invece poliziotto colluso con la mafia locale e in seguito amante di Anna, e Lele (Filippo Borghi), criminale dalla nascita cui gli è stata mozzata la lingua perché logorroico; appaiono fugacemente altre figure, Johnny, un uomo sul lungofiume del Danubio, un compare (tutte interpretate da Adriano Braidotti).
La nebbia, che appare all’inizio e nella quale si muovono i personaggi, continua ad incombere simbolicamente per tutta la durata dello spettacolo, anche quando si è definitivamente alzata. In essa sono immersi tutti, dialogando senza riuscire a comprendersi a causa di un frequente sfasamento tra un passato ormai perduto in cui alcuni di loro tentano di rifugiarsi, ed un presente rifiutato perché incomprensibile. Le esistenze sono contradditorie, determinate dalle scelte di altri o risultato di eventi esterni,a loro volta causa di scelte professionali ed etiche non proprie: il protagonista, smarrito, ad un certo punto si domanda: “Dove ho di nuovo sbagliato?” La verità è velata, ognuno ha la propria e non riesce a comunicarla agli altri; ci si uccide per futili motivi, senza vere ragioni, anche fra vicini di casa.I personaggi di Dušan Kovačevićsono eroi tragici inseriti in una commedia dai toni profondamente noir che risultano, proprio per questo, grotteschi, fuori luogo, avulsi dal contesto, prigionieri di una società disumanizzante. I ruoli, apparentemente semplici nascondono, sotto la superficie, drammi profondi causati dalla convivenza di epoche e civiltà diverse, di mondi arcaici, moderni e contemporanei, in cui la violenza si scontra con un’educazione tipica della borghesia mitteleuropea ormai morta, spazzata via dall’indifferenza per il valore della vita da parte di una generazione uscita da una guerra fratricida che continua ad essere presente, celandosi dietro ai regolamenti di conti fra bande nemiche, perché “la guerra quando comincia non sa fermarsi, visita ogni casa.” Ognuno vive in un proprio quadro senza comprendere quello in cui stanno gli altri, da cui è completamente separato.
Grazie a questa produzione de Il Rossetti - Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia,la commedia “Doktoršuster”, scritta da Dušan Kovačević nel 2001, viene proposta per la prima volta in Italia. La regia è della croata Helena Petković con gli attori della Compagnia Stabile del Teatro; la traduzione è di Dragan Mraović, mentre l’adattamento e la drammaturgia sono di Mila Lazić. Un’occasione unica per vedere in scena l’opera di un autore, noto per essere l’autore di “Underground”, il film del 1995 diretto da Emir Kusturica, premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, ma difficile da conoscere nella sua produzione teatrale a causa della scarsità delle traduzioni in italiano delle sue opere. Gli attori sanno rendere in modo convincente le caratteristichedei rispettivi ruoli: lo straniamento di Kos, l’esuberanza di Bella, la triste consapevolezza di Branko, l’ambivalenza di Anna, la follia di Lele e l’inadeguatezza di Elcriso, che appare più degli altri fuori dal contesto, forse perché è quello più “normale”. La combinazione di queste “maschere” si muove partendo dalle sponde del Danubio, fiume di Belgrado, città sempre presente sulla scena e mai nominata,si sposta nell’abitazione di Kos che da edificio cadente si trasforma in clinica per criminali e sul Danubio ritorna, rievocando il suo ruolo di “ponte” con la Vienna frequentata dal giovane Kos, studente di medicina di giorno e calzolaio di notte, lontana nel tempo e nello spazio. Le scene sono essenziali ma efficaci, ben congeniate. La musica è presente in pochi, rari momenti, evocatrice di atmosfere perdute, diventando così elemento pregnante. I lunghi applausi finali hanno dimostrato il buon apprezzamento da parte del pubblico.

Paola Pini


DOKTOR ŠUSTER
dal 12 al 31 gennaio 2016
Politeama Rossetti, Sala Bartoli

Di:Dušan Kovačević
Drammaturgia: Mila Lazic
Scene: Silvio Vujicic
Costumi: Silvio Vujicic
Luci: Davide Comuzzi
Suono: Carlo Turetta
Regia: Helena Petkovic
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Interpreti: Riccardo Maranzana, Lara Komar, Ester Galazzi, Francesco Migliaccio, Filippo Borghi, Andrea Germani, Adriano Braidotti

NERONE, DUEMILA ANNI DI CALUNNIE. Teatro d’arte. Di Paolo Leone

$
0
0

Roma, Teatro Quirino. Dal 19 al 31 gennaio 2016

La storia, si sa, la scrivono i vincitori, in ogni epoca. Non immuni da un’ottica di parte, a volte obnubilata da interessi di vario tipo. Col passare dei secoli, non è infrequente una parziale riscrittura alla luce di nuovi elementi, scoperte, documenti occultati. Lo è stato per Caligola, nell’immaginario collettivo un povero folle dedito alle orge sfrenate, quando i più recenti studi hanno dimostrato ben altro. La damnatio memoriae dell’antica Roma, come quella più recente, colpisce anche con le calunnie, con le affermazioni ripetute all’infinito che, veritiere o no, diventano giocoforza  verità. Nerone, duemila anni di calunnie, tratto dall’omonimo saggio di Massimo Fini e messo meravigliosamente in scena da Edoardo Sylos Labini, ci mostra con tutta la bellezza possibile nella mente di un autore, l’Imperatore alle prese con i suoi fantasmi ripercorrere il suo declino. “Nerone ha bruciato Roma, ha ucciso il fratello, la madre… è l’antiCristo, ama il popolo, il pazzo”, queste alcune delle accuse fomentate da quel Senato protettore della casta economica ed intellettuale che mal digeriva le aperture azzardate del dittatore verso la popolazione. In un’atmosfera onirica creata dalle scene e dai costumi raffinati di Marta Crisolini Malatesta e dalle luci suggestive di Pietro Sperduti, nonché dalle bellissime musiche dello straordinario mimo Paul Vallery, presenza discreta ma di grande effetto sul palco, lo spettacolo è quanto di più affascinante e bello (anche registicamente) visto negli ultimi tempi. Pièce di rara eleganza e raffinatezza, la cui forma non oscura le interpretazioni dei protagonisti. Dallo stesso Edoardo Sylos Labini, eccezionale nelle vesti di Nerone, a quelle di un perfetto Sebastiano Tringali in quelle di Seneca, personaggio fondamentale nella comprensione degli eventi (pur se in giacca e cravatta come gli altri esponenti del Senato, scelta registica dal chiaro riferimento all’immutabilità del potere nei millenni). 

Straordinarie anche Fiorella Rubino nel ruolo della perversa madre Agrippina e Dajana Roncione in quello di Poppea, bellissima e accorata nell’accorgersi della rovina imminente. Tutti i personaggi, compresi i vari elegantissimi figuranti della Corte, appaiono e scompaiono nella mente dell’Imperatore e palesano la voracità cannibale del Potere vero, fenice indistruttibile. L’aspirazione alla poesia, all’arte, alla bellezza, di Nerone è un nemico da abbattere. “La poesia apre le porte dell’eternità, ma chiude quelle del potere”. E se è vero che il potere si esercita nella solitudine, Nerone rimane solo come un attore sul palcoscenico ed esce di scena con dignità come l’artista che ingenuamente sognava di essere. “Cosa resterà di me? Duemila anni di calunnie”. Si esce dal teatro con la percezione di aver assistito ad una vera opera d’arte.

Paolo Leone


RG Produzioni
Edoardo Sylos Labini in: Nerone, duemila anni di calunnie. Dall’omonimo saggio di Massimo Fini. Drammaturgia di Angelo Crespi. Con la partecipazione di Fiorella Rubino. Con: Sebastiano Tringali, Dajana Roncione, Giancarlo Condè, Gualtiero Scola, Paul Vallery e con gli attori della Fonderia delle Arti. Scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta; Disegno luci di Pietro Sperduti; Musiche originali di Paul Vallery.

Si ringraziano gli uffici stampa Silvia Signorelli, Monica Menna e Paola Rotunno.

“IL PICCOLO PRINCIPE”, OVVERO: ALLA SCOPERTA DELL’INFANZIA PERDUTA. Di Francesco Vignaroli

$
0
0

Cortona, Cinema Teatro Signorelli. Sabato 16 gennaio 2016

“L’ESSENZIALE E’ INVISIBILE AGLI OCCHI” (Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe)

“HAVE YOU SEEN MY CHILDHOOD?” (dalla canzone Childhood di Michael Jackson)

Nell’odierna società dell’efficienza e dei numeri, dove la competizione è feroce, se si vuol avere successo nella vita occorre programmare quest’ultima fin dall’inizio. Ed è proprio il caso della nostra piccola protagonista, una bambina qualunque che, incalzata da una madre ambiziosa e perennemente indaffarata nel lavoro, vuole (deve) entrare alla prestigiosa Werth Academy. Fallito il colloquio di selezione, bisognerà puntare tutto sulla prova d’appello. A tale scopo la mamma le predispone una minuziosa tabella di marcia in cui c’è scritto tutto ciò che dovrà fare durante l’estate, minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno: quando e cosa mangiare, quando e cosa studiare, ecc… Insomma: anche così si nega l’infanzia! Sennonché, dopo il trasloco in un’abitazione più consona alle aspirazioni di mamma e figlia (un’anonima villetta moderna, proprio uguale a tutte le altre di un altrettanto anonimo quartiere), la piccola si imbatte nel nuovo vicino di casa (una casa strana, diversa dalle altre), un buffo e stralunato vecchietto che cerca di far volare un aereo nel proprio giardino e che ha una storia interessante, la sua storia, da raccontarle: l’incontro col Piccolo Principe. Tra la bimba e l’anziano ex-aviatore nasce così una forte amicizia, grazie alla quale la piccola riscoprirà i tesori dell’infanzia (la fantasia, l’immaginazione, il sogno…) e riuscirà a incontrare davvero il Piccolo Principe, divenuto ormai un giovane uomo triste e insicuro perché ha dimenticato di essere stato un bambino…
“SEI ANNI FA EBBI UN INCIDENTE COL MIO AEROPLANO NEL DESERTO DEL SAHARA…”




Chi ha detto che ragione e sentimento, responsabilità e leggerezza, dovere e piacere, concretezza e fantasia non possano coesistere pacificamente all’interno della stessa persona? Chi ha detto che, per diventare adulti seri, responsabili, realizzati, ecc… si debba per forza rinunciare a tutto ciò che riguarda l’infanzia?
Credo che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero leggere Il Piccolo Principe, il racconto-capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), grande aviatore e -soprattutto- umanista francese, scomparso misteriosamente durante un volo il 31 luglio 1944. Meglio ancora sarebbe leggere il libro due volte: la prima da bambini, la seconda da adulti. Il piccolo principe, infatti, è un racconto autobiografico (riallacciandomi al breve estratto riportato poco sopra, per esempio, cito la circostanza che, nel 1935, da pilota di professione, Saint-Exupéry ha realmente avuto un incidente aereo nel Sahara) universale, capace cioè di “parlare” a grandi e piccini di tutto il mondo in virtù della sua profondità e magia, ma l’età in cui “si fa la sua conoscenza” èdecisiva nel determinare i “sapori” che si riusciranno a sentire nel libro. Fascino fiabesco, dolcezza e commozione dovrebbero essere i sentimenti prevalenti nei bambini; sempre riguardo a questi ultimi, aggiungo che Il Piccolo Principe può essere considerato un testo propedeutico per l’avviamento alla lettura (un inizio ideale!). Diverso, ovviamente, il discorso per gli adulti, che con questo libro potrebbero provare tenerezza, nostalgia e, soprattutto, ricavare un monito: a non rinnegare, a non soffocare e a non dimenticare il bambino che è in ognuno di loro. Per quanto riguarda il resto, cioè le sensazioni che il libro suscita nei piccoli, il provarle o meno da adulti dipenderà da quanto c’è rimasto in noi (mi ci metto anch’io…) del nostro “io bambino”… Rileggere Il Piccolo principe più avanti, cioè in un’altra stagione della vita, può quindi rappresentare un’esperienza del tutto nuova rispetto a quella fatta da piccoli durante il primo incontro. A pensarci bene, poi, l’accorato appello di fondo a non estromettere l’infanzia dalla vita adulta rende Il Piccolo Principe, alla fine, un libro quasi più adatto ai grandi che ai bambini…
Lo stesso discorso vale per il film che, con delicatezza e poesia, ci restituisce in pieno lo spirito del libro di Saint-Exupéry, prendendosi solo la licenza di trasportarlo in un’immaginaria (mica tanto, però!) realtà moderna che vorrebbe imporre ai bambini una crescita sempre più anticipata, dalla quale bandire fantasia, immaginazione e dimensione ludica nel nome di un’idea di progresso che perde di vista quell’ “essenziale” che solo il cuore può vedere.


Francesco Vignaroli

Da Parzialmente Stremate a Stremate dalla Luna: una commedia tutta al femminile. Di Flavia Severin

$
0
0

Teatro 7, Roma, Via Benevento 23. Giovedì 21 gennaio 2016

Se non avete visto il capitolo precedente “Parzialmente Stremate”, non vi preoccupate: sarà proiettato un riassunto che vi farà già capire il mood sarcastico e divertente che prenderà piega nello spettacolo “Stremate dalla Luna”.

La trama riprende dopo un anno e mezzo dai trascorsi accaduti e ora le quattro protagoniste si trovano a dover affrontare insieme ancora altri intrighi e disavventure. Ed è così cheMirella, Marisa, Silvana ed Elvira saranno più “Stremate” prima! Stavolta, però, sono “Stremate dalla Luna”. Sì, più precisamente stremate da Luna, la sorella di Elvira, che arriva da Napoli e che creerà ulteriore scompiglio portando con sé una sorpresa totalmente inaspettata.

Ed ecco che inizia una pazza serata all’insegna delle confessioni e delle risate che danno però spazio alla riflessione profonda sul tema dell’amore materno, che non è solo di colei che ti crea ma è anche di colei o coloro che ti amano e ti crescono. Un momento intimo e romantico spezza l’ironia frivola dello spettacoloper lasciare al pubblico una morale importante e profonda su cui meditare.

Battute taglienti e originali, per una serata leggera e divertente, con un finale studiato, proiettato nel futuro, che fa sorridere e anche un po’ sognare.

Flavia Severin


Protagoniste: Barbara Begala, Federica Cifola, Beatrice Fazi, Barbara Foria, Giulia Ricciardi
Testo di Giulia Ricciardi

Regia: Michele La Ginestra
Aiuto regia: Ludovica Di Donato
Disegno luci: Francesco Mischitelli
Organizzazione: Alessandro Prugnola
Foto: Azzurra Primavera

IL TEATRO CERCA CRITICA: BANDO PER LA II EDIZIONE DEL LABORATORIO PER ASPIRANTI CRITICI TEATRALI 2.0. Di Francesco Pace

$
0
0

Nel mondo teatrale si dà, da parecchio tempo a questa parte, ampio spazio alla “formazione” delle tante figure che gravitano attorno al mestiere “teatro”: dalle scuole di recitazione, ai corsi di sceneggiatura, per finire poi a corsi di laurea pensati proprio per i futuri scenografi. C’è anche però anche colui al quale il teatro piace raccontarlo: è il critico teatrale che da sempre ha fatto “tremare” le migliori Compagnie del mondo con le proprie “sentenze”. E’ grazie ai critici se oggi conosciamo l’andamento di alcune storiche rappresentazioni teatrali diventate famose e degne di ricordo proprio grazie ai loro giudizi positivi. Con l’avvento del web poi si è assistito al proliferare di questa importante figura del mondo teatrale. Ma chi è il critico teatrale? Un giornalista, certo, ma non come tutti gli altri forse. Ha tanta passione per il Teatro e per gli spettacoli teatrali e possiede un’adeguata formazione in tal senso: e allora perché non pensare ad un corso che possa formare questa figura? E’ ciò che “Il Teatro cerca casa”, il circuito teatrale che da quattro anni ormai porta il Teatro in appartamento, diretto dal drammaturgo Manlio Santanelli, si è proposto di fare: è online infatti il Bando della Seconda Edizione del Laboratorio “Il Teatro Cerca Critica” che ha come obiettivo appunto preparare e formare i futuri critici del web. Con il patrocinio morale dell’ANCT (Associazione Nazionale Critici di Teatro) e l’Ordine dei Giornalisti della Campania il corso tende a porre l’attenzione – si legge nel comunicato stampa – “su un altro segmento del settore in crisi, ossia la critica teatrale che, progressivamente bandita dalla carta stampata, negli ultimi dieci anni ha subito una migrazione sul web, che si configura come un movimento di estrema vitalità”.
Dopo un soddisfacente primo anno che ha visto la partecipazione di 13 allievi, oggi abbastanza inseriti nel panorama giornalistico teatrale, anche quest anno il corso prevede la partecipazione di 15 allievi, selezionati tramite analisi del curriculum e colloquio con la Direzione del Corso presieduta da Manlio Santanelli, che avranno la possibilità di poter partecipare alle lezioni improntate innanzitutto sulla Storia del Teatro (la cui conoscenza è un must per il critico teatrale), sull’analisi del testo drammaturgico e sulla metodologia della critica teatrale. Per un corso d’eccezione anche i docenti saranno d’eccezione: oltre al drammaturgo Santanelli, il corso verrà arricchito dai preziosi insegnamenti di Giulio Baffi, Antonia Lezza, Enzo Moscato, Carlo Cerciello, Paolo Coletta, Ottavio Lucarelli, Milena Cozzolino, Gianmarco Cesario, Stefano De Stefano e tanti altri. La novità di quest anno è l’ampio spazio dato anche agli altri “mestieri del Teatro” (sottotitolo del Laboratorio): due i moduli extra pensati in tal senso. Il modulo di “Addetto Stampa”, che vedrà la partecipazione di importanti giornalisti e Capo Ufficio Stampa del Teatro napoletano, e il modulo “I mestieri del Teatro” che si pone di creare un focus sulle altre professionalità legate a questo mondo, come la direzione di scena, la regia, la recitazione. Le lezioni si terranno il sabato mattina dalle 10 alle 14 dal 30 Marzo al 28 Maggio.
C’è tempo fino al 14 Febbraio per inviare la domanda corredata da curriculum e lettera motivazionale all’indirizzo mail info@ilteatrocercacasa.it. Per ulteriori informazioni e maggiori dettagli consultare il Bando sulla pagina FB de “Il Teatro Cerca Casa”.


Francesco Pace

MONICA GHISLENI, L’ARTIGIANA DELLE BORSE: “IN PRIMAVERA BISOGNA OSARE… MA SOLO NEGLI ACCESSORI”. Intervista di Alberto T.

$
0
0

Quella di Monica Ghisleni, bella 25enne della Provincia di Bergamo, è una storia che sembra uscita dai cassetti di qualche decennio fa. È la storia di una ragazza a cui piace cucire e creare, di una figlia di mamma e nonna sarte che ha preso in eredità il gusto del “fare” con le proprie mani. Quattro mesi fa, dopo essersi laureata in Design della Moda al Politecnico di Milano ed aver lavorato per qualche tempo in azienda, ha deciso di mettersi in proprio e presentare al pubblico la prima collezione autunno-inverno delle proprie borse. Che, alla faccia dei grandi brand, sono belle, leggere e di qualità. Al 100% Made in Italy, in pelle vera, senza cuciture. “Perché una borsa può rendere bella una donnae attirare l’attenzione, più di una minigonna o un vestito appariscente. E poi, non se ne può più di vedere su tutte le donne sempre gli stessi accessori: è ora di tornare al passato, di scegliere ciò che piace ed essere personalizzato”. Ed è così che Monika, il nome della sua collezione (https://www.facebook.com/Monikahandmake/?ref=br_rs&pnref=lhc), ha fatto faville prima a Bergamo e poi in tutta la Lombardia con decine di esemplari venduti nell’arco di qualche settimana. La nuova collezione è alle porte, la Primavera sta per fiorire e l’occasione è buona per qualche consiglio spassionato al genere femminile per essere sempre fashion. Parola d’ordine: osare. Ma non nei vestiti…

Iniziamo da qui: primavera estate 2016, come essere fashion?

Tre consigli secchi? Osare sui colori, in particolare sul rosa e sull’azzurro. Ritrovare femminilità nell’abbigliamento, puntando ad esempio su gonne al ginocchio, giocando con pizzi, senza scoprirsi e senza ostentare più di quel tanto. E, invece, farsi notare per gli accessori che si hanno indosso: puntare su glitter, strass, qualcosa di bello e vistoso.

A proposito di accessori, Monika Handmade nasce proprio in questa fetta di mercato…

O forse nasce… sulle orme del mestiere di mamma e nonna, entrambe sarte, che fin da piccola mi hanno trasmesso il gusto del tagliare, del disegnare, del creare. Ebbene sì, adoravo vestire la mia Barbie, i miei hobby sono sempre passati da questo mondo e da piccola sognavo di diventare esattamente quella che sono.

Una strada difficile, coltivata dopo una Laurea al Politecnico.

Per un anno ho lavorato in un’azienda in cui venivano prodotte borse realizzate a mano, poi sono passata ad un’azienda specializzata in abbigliamento. Quasi per sfida, mi è stato chiesto di creare dei pezzi unici, una linea di borse che facesse davvero tendenza.

Ed ecco che arriviamo a Monika Handmade, la tua linea di borse… fashion.

Innanzitutto, borse realizzate in pelle o in ecopelle, prive di cuciture, con un intreccio sul bordo che le definiscono. Oltre alle colorazioni base, costituite da nero, bianco e bordeaux, mi piace proporre alle clienti un campionario che osi davvero nei colori, in cui l’azzurro e l’arancione, ad esempio, siano gli elementi per non passare inosservate.

Tutte le donne sono pazze di… borse. Come sono le tue?

Di qualità innanzitutto, senza fodera ed interamente di pelle. E poi leggere: che senso ha comprare qualcosa di pesante, quando ogni donna nella borsa deve poi metterci il proprio mondo? Ed infine… belle!
Pezzi unici insomma, introvabili nei negozi.
Proprio questo fa la differenza, la possibilità di uscire dalla massa e slegarsi dai brand che ormai hanno reso il mercato un enorme visto e rivisto. Le clienti, nel mio caso, hanno la possibilità di personalizzare il loro prodotto, di sentirsi belle perché hanno fra le mani qualcosa che hanno fortemente voluto e non semplicemente visto dietro una vetrina.

Cosa cerca una donna quando compra una borsa?

Sicuramente la comodità, perché nessuna può ammettere di girare per strada con qualcosa che non sia pratico e facile da usare. Naturalmente vuole un accessorio che si faccia notare e si coniughi al contesto in cui si intende utilizzarlo. Ed infine… vuole anche qualcosa che sia sicuro: nessuna donna può accettare che qualcuno frughi in quel suo mondo portatile!

Monica Ghisleni, artigiana delle borse. E siccome la nuova stagione è alle porte, la nuova collezione sta per sbarcare…

Proprio così, anche se per il momento è quasi tutto top secret. Indiscrezioni? Colore, colore e ancora… colore! Primavera ed estate sono le stagioni del colore, ecco su cosa bisogna puntare! Certo, nero e beige sono tonalità intramontabili, ma il rosa, il rosso e l’azzurro sono sinonimo di giusta stravaganza e di sguardi puntati sull’accessorio. Certo, se una donna si accontenta, trova in negozio i colori più tradizionali. Affidandosi a me, bisogna uscire dai canoni del marketing…

Perché, come premesso, non bisogna scoprire il corpo ma scoprire… gli accessori.

Infatti, è così! Sarebbe davvero bello essere notate per strada non per certi vestiti, ma per una borsa! E dico anche che bisogna riscoprire il valore degli accessori, uscendo dai messaggi che la pubblicità ci veicola! Le donne comprano borse orribili, prodotte chissà dove, semplicemente perché di moda o perché l’hanno vista fra le mani di quel tal personaggio della tv o dello spettacolo. Non è il prezzo che fa la qualità dell’accessorio, sta tramontando l’idea che lo status symbol dipenda dal brand che si tiene fra le mani.

In qualche modo, si sta forse tornando alle origini.

Presto per dirlo, ma ho la certezza che si stanno riscoprendo anche lavori come il mio. Ho 25 anni, adoro cucire, so lavorare ad uncinetto, un qualcosa di raro fra le mie coetanee. Invece è un valore aggiunto a fronte della standardizzazione con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni, la gente è stanca di vedersi addosso sempre gli stessi vestiti. Vogliamo immaginare una donna che ad una vesta indossa lo stesso abito di un’altra invitata? È impensabile per me nell’abbigliamento come nell’accessorio.

Hai una laurea in Design della Moda, quanto ti è servita per lanciare la tua collezione?

Moltissimo a livello teorico, anche se sul campo si impara veramente cos’è il lavoro, trattare con i fornitori, soddisfare le richieste delle clienti.

Guardiamo al futuro: dove ti vedi tra dieci anni?

Chi può dirlo… Sicuramente non voglio essere un brand di massa, perderei il senso della mia linea. Non voglio che il mio prodotto possa essere acquistato ovunque, ma deve rimanere un pezzo unico fra le mani di chi lo ha cercato e acquistato. Mi piacerebbe aprire dei negozi monomarca, in cui a vista vi sia un laboratorio che confermi la produzione manuale delle mie borse.

C’è un personaggio del mondo dello spettacolo che vedresti bene con una delle tue borse?

Non saprei, ma mi piacerebbe che chiunque ce l’abbia indosso si renda conto del lavoro che c’è dietro ogni singolo pezzo. Realizzo borse piccole e grandi, oltre a semplici pochette. Per ciascuna di esse, c’è stato un lavoro di preparazione e produzione di diverse ore.

Ultima domanda: abbiamo dimenticato di chiedere il prezzo…

Giusta osservazione? Penso che sia un prezzo più che onesto alla luce della qualità dei materiale e della produzione in laboratorio. Volete saperne di più? Contattatemi su Facebook per l’intero campionario!
MONIKA HANDMADE

Curata da Alberto T.

“THE REVENANT”: MOLTO RUMORE PER…? Di Francesco Vignaroli

$
0
0

Cortona, Cinema Signorelli. Lunedì 25 gennaio 2016

No, non completo la citazione shakespeariana perché costituirebbe un giudizio eccessivamente negativo, ma ciò non toglie che, a parte le tante chiacchiere che si stanno facendo, da questa nuova fatica di Alejandro Gonzales Iñarritu mi aspettavo molto di più, e proprio in virtù della firma prestigiosa che Revenant – Redivivo reca in calce. Invece, dopo il geniale Birdman, giustamente premiato con i due Oscar più importanti –miglior film e miglior regia-, il regista messicano sceglie di non rischiare tornando nelle sale con un’opera solida ma convenzionale, piuttosto piatta e lineare nel suo meccanico –pari a quello del protagonista- incedere narrativo. In altre parole: una storia dal respiro un po’ corto…

Selvaggio Nord degli Stati Uniti, lungo il fiume Missouri, quando ancora gli indiani, cioè i veri americani, lottavano per la propria terra contro i bianchi: ecco le coordinate spazio-temporali di Revenant, una drammatica (e lunga) storia di vendetta, quella che un padre (DiCaprio) cerca per il proprio figlio, brutalmente pugnalato a morte da un compagno di disavventure. Sopravvissuto a stento al confronto corpo a corpo con un orso, e ad almeno due assalti degli indiani, l’uomo è tenuto in vita unicamente dal desiderio di fare giustizia. Tutto qui? Già…




La storia, ispirata a fatti realmente accaduti, è tutt’altro che originale, e va in archivio come un avventuroso film “di vendetta” di medio livello, all’insegna di un “tutto già visto” pur, dal punto di vista estetico, impeccabile.
I personaggi sono monodimensionali, protagonista compreso; di quest’ultimo possiamo cogliere solo la parte istintiva (anche perché lo vediamo spesso “impegnato” a sopravvivere…), mentre della sua psicologia non riusciamo a scorgere quasi nulla, e in questo modo è difficile trovarlo carismatico o memorabile: decisamente, non siamo in presenza di un nuovo eroe epocale del grande schermo! Leonardo DiCaprio, comunque, ce la mette proprio tutta, spendendosi in quella che è forse l’interpretazione più sofferta di tutta la sua carriera, e mettendo una seria ipoteca sulla conquista del tanto agognato primo Oscar come miglior attore protagonista (fra un mesetto sapremo…). Nella versione italiana l’attore perde qualcosa a causa della diabolica perseveranza della direzione del doppiaggio, cocciuta nell’affibbiargli la solita vocetta adolescenziale ormai anacronistica, se non ridicola, per un attore quarantenne (quando si decideranno a prendere atto che il tempo è passato anche per lui?!?!). Fortunatamente, la penuria di battute in Revenant nasconde, almeno in parte, la magagna…
Tornando alla storia, troviamo qualche fievole eco “alla” Balla coi lupi (o “alla” Piccolo grande uomo, se preferite)negli accenni, lasciati subito cadere, alla questione relativa ai problemi dei nativi e a quella del rapporto uomo/Natura, ma non mancano nemmeno alcune -evitabili- esagerazioni da film di supereroi, come la lotta con l’orso o il volo col cavallo nel burrone.
Notevoli, invece, la fotografia, le scene di battaglia e gli splendidi scenari naturali del film, ma non credo che tutto ciò possa bastare a Iñarritu per bissare il trionfo di Birdman


Francesco Vignaroli
Viewing all 298 articles
Browse latest View live