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Channel: Corriere dello Spettacolo
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“Memphis”, il romanzo di Teona Dolenjashvili sulla triste condizione del mondo. Foto originali di Ivan Selloni

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"Sullo sfondo della Tbilisi degli anni 90’ Anna trascorre un’infanzia e un’adolescenza poco serene. Il padre abbandona la famiglia, la madre cerca di lottare contro la povertà vendendo tutti gli oggetti preziosi e improvvisamente scompare senza lasciar tracce."
Anna è la protagonista di "Memphis", romanzo della giovane giornalista, scrittrice e regista georgiana Teona Dolenjashvili, edito dal "Centro Culturale di Studi Storici - Il Saggio" e  tradotto in italiano da Manana Topadze Gäumann.
Presentato alla Casa delle Letterature di Roma alla presenza del Primo Consigliere dell'Ambasciata georgiana Sofia Kartsivadze e di Roberto Naponiello, redattore de "Il Saggio".

Anna è un'eroina romantica che nonostante le disavventure e le delusioni sentimentali trova sempre il coraggio di affrontare e combattere la malvagità dell'uomo arrivando a sacrificare se stessa per dedicarsi al prossimo.
Dopo essersi trasferita da Tbilisi a Vienna per il suo lavoro da pittrice, si accorge che lo scintillante mondo culturale delle maggiori capitali europee che la circonda è portatore di falsi miti dove i sentimenti più puri dell'animo umano vengono sostituiti dall'egoismo e dal cinismo.
Disgustata da tutto questo, Anna decide di ritornare in Georgia per curare sua figlia affetta da una malattia cardiaca e proprio nella sua città natale scopre una realtà altrettanto crudele dove la vita delle persone più povere viene venduta a chi può comprarla.
Inizierà così un altro capitolo della sua vita al servizio dei diseredati e degli esclusi da un sistema sociale che sembra non avere confini geografici.
Teona Dolenjashvili, vincitrice di numerosi premi per i suoi precedenti lavori, ha ricevuto per "Memphis" il premio Letterrio "Saba".











CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF? Di EDWARD ALBEE, Con MILVIA MARIGLIANO e ARTURO CIRILLO. Di Daria D.

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Teatro Menotti, Milano. dal 2 al 6 febbraio 2016

Un testo “sgradevole” questo “Chi ha paura di Virginia Woolf?” scritto nel 1962, sgradevole per quello che racconta e come lo racconta, per i personaggi che lo interpretano e per una serie di altri motivi, tra cui il titolo che prende lo spunto, come ricorda il suo drammaturgo Edward Albee, da una scritta tracciata da un anonimo su uno specchio di un caffè sulla Decima Strada a N.Y.
Un testo davanti al quale un regista non può stare nel mezzo, o lo prende di petto, rischiando di diventare anche lui “sgradevole” o non lo affronta proprio. Quattro personaggi,  Martha e George, sposati da lungo tempo e Honey e Nick le giovani prede cadute nelle mani della coppia più anziana e più scaltra, una notte, dopo un party tra professori universitari, si ritrovano per bere il bicchiere della staffa. Sarà invece un susseguirsi ininterrotto di bicchieri svuotati e riempiti senza nessun freno e si sa, in vino veritas, partecipando inconsapevolmente ad un gioco che si fa sempre più duro, crudele, alcolico e difficile da fermare.
George, che a detta di Martha è un uomo senza ambizione o forse ce l’ha avuta un tempo, visto che ha sposato (o si è fatto sposare?) la figlia del Preside della Facoltà di Storia, è un uomo quieto, magro, brizzolato, un professore inerte e inerme, è però arguto e ironico e vuole “dirigere lui lo spettacolo”, una volta tanto. E infatti altro non è che uno spettacolo nello spettacolo, quello offerto da George e Martha ai due giovani, fatto di battute crudeli ed epiteti volgari, isterismi e corse al gabinetto per vomitare, minacce e strilli, tra un “versami da bere” e l’altro, con Martha che rivendica di essere “rumorosa e volgare” di “portare i pantaloni in casa” ma di “non essere un mostro”, sputando in faccia al marito: “ero alla festa di papà… e mentre ti guardavo, mi sono accorta che non c’eri” oppure ““giuro che se esistessi chiederei il divorzio”.

Storie di coppie borghesi che nascondono dietro facciate perbene le loro disgrazie sentimentali, i loro sogni non realizzati, le loro mancanze, annegandole in fiumi di alcool. Martha che fa la gatta morta con Nick, carne giovane e soda, mentre George non solo sopporta, ma quasi incoraggia, anche se con disgusto, Honey che confida a George le sue gravidanze isteriche, ognuno vomita le proprie debolezze e cattiverie. I due uomini  si sono sposati  per i soldi o per fare carriera e ora ne pagano le conseguenze ma tirare avanti facendo finta di nulla  è il loro leitmotiva meno che un bel bicchiere di whisky o bourbon non dia loro il coraggio di “dire la verità”.
Nick: “Bevono tutti come spugne nell’Est. Anche nel Middle West bevono tutti come spugne”
George: “Sì, beviamo moltissimo in questo paese, e ho l’impressione che berremo ancora di più in avvenire… se riusciremo a sopravvivere. Dovremmo essere italiani o arabi…”
Attori bravi e consapevoli delle loro parti, partecipano a questo gioco al massacro riempiendosi di alcool per ore, che però non risulta abbastanza nella loro recitazione, un po' troppo sobria, priva di quel realistico abbrutimento conseguenza del rilascio dei freni inibitori.  Nel testo di Albee, poi, dalla carabina giocattolo di George, puntato alla tempia di Martha, esce “un parasole cinese rosso e giallo” ma il regista Cirillo  lo ha tralasciato  lasciandoci nel dubbio che il mite professore possegga un vero fucile, cosa altamente improbabile per un tipo come lui. Un particolare forse voluto ma allora poteva farlo sparare in aria o contro uno dei bicchieri che come in un tiro a segno, se ne stanno allineati sul mobile bar. Bum!
Interessante l'idea registica dello scardinamento e sconnessione della scenografia, ma Cirillo doveva osare di più, lui che ha osato essere un “femminiello” in quel bello spettacolo “Scende giù per Toledo” di cui scrissi l'anno passato.
Non so se questo play rappresenti la storia dell’Occidente e della sua imminente caduta, e che qualche altra civiltà sarebbe ben felice che succedesse, quello che sicuramente è, è una storia universale di esseri umani,  collocabile in ogni epoca e in ogni luogo, a patto che ci sia molto da bere, poco da fare e molto da rimpiangere. E non mi meraviglierei e sarei felice che fosse andata proprio  così, che anche Albee, mentre la scriveva in quel bar della Decima strada, fossestato under the influence…

Daria D.


CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF?
Con MILVIA MARIGLIANO e ARTURO CIRILLO

diEdward Albee
traduzione Ettore Capriolo
e con
Valentina Picello
Edoardo Ribatto
sceneDario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Mario Loprevite
regia Arturo Cirillo
produzioneTieffe Teatro Milano

“MODIGLIANI E LE SUE DONNE”: ARTE, AMORE, LIBERTA’ E TRAGEDIA NELLA PARIGI DEL PRIMO ‘900. Di Francesco Vignaroli

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Teatro Morlacchi, Perugia. Venerdì 5 febbraio 2016

“L’uomo che amava le donne”: il titolo del bel film di François Truffaut calzerebbe proprio a pennello, come epigrafe immaginaria, all’Amedeo Modigliani interpretato da Marco Bocci in Modigliani e le sue donne, spettacolo -basato sulla vera vita dell’artista- firmato da Angelo Longoni, qui regista oltre che autore.
La pièce ripercorre il periodo parigino (1906-1920) del geniale e sfortunato pittore e scultore livornese attraverso i suoi grandi amori, cioè le quattro donne più importanti per la sua vita e per la sua arte. Quattro figure “storiche”, quindi reali, ma anche simboliche, per riassumere le diverse fasi artistiche e affettive –specchio di una mente inquieta e complessa- della breve ma intensissima vita di Modigliani: l’affascinante Kiki de Montparnasse (Giulia Carpaneto), prostituta e modella che inizia Modì alla vita bohémien, facendogli conoscere i più importanti artisti della città ma anche la perdizione con droghe e alcolici; la poetessa e chiaroveggente russa Anna Achmatova (Vera Dragone), con la quale Amedeo stabilisce una fortissima intesa sia fisica che -soprattutto- intellettuale, trovando un effimero momento d’equilibrio che crolla quando la donna sceglie di tornare in patria col marito, il poeta Nikolaj Gumilev; Beatrice Hastings (Romina Mondello), forse l’amore più intenso e turbinoso di Modì, ricca e colta corrispondente a Parigi per un giornale britannico, donna forte e dalla spiccata mentalità imprenditoriale, convinta sostenitrice del talento del Nostro e perciò determinata nel convincerlo a lasciare la scultura per la più redditizia pittura; Jeanne Hébuterne, la giovanissima (14 anni meno di lui) e devota moglie, pittrice a sua volta, talmente legata a Modigliani da decidere di seguirlo anche nella morte, nonostante porti in grembo il loro secondo figlio.

Dopo l’articolo sull’interessante mostra “Gli amori di Modì” (Arezzo, Galleria comunale di arte contemporanea, fino al 21 febbraio), torno volentieri a parlare di un’altra iniziativa culturale riuscita legata ad Amedeo Modigliani, di cui, lo ricordo ancora, nel 2020 cadrà il centenario della scomparsa, evento che sarà celebrato –si spera- con una grande esposizione di tutte le sue opere.
Modigliani e le sue donne, come ben si intuisce dal titolo, racconta l’artista focalizzandosi su uno degli aspetti più importanti della sua vita: l’amore. Amore che però, in Modì, si intreccia indissolubilmente con l’arte, come la pièce mostra a più riprese: non solo il Modigliani tombeur de femmes, quindi, ma anche l’artista desideroso di immortalare le donne (spesso nude), sua principale fonte d’ispirazione, sulla tela, per comporre un’ode sconfinata e imperitura all’insondabile mistero della bellezza femminile, il soggetto prediletto dal pittore, di fronte al quale è colto da irrefrenabile emozione ed estasi creativa. Accanto al rapporto tra l’arte e l’amore, emergono anche altri aspetti reali della carriera e della vita di Modigliani: il “fare arte per l’arte”, l’amicizia/rivalità con Picasso, il rifiuto di aderire a qualunque movimento artistico particolare, la sofferta decisione di abbandonare la scultura (sia per motivi di salute che economici) in favore della pittura, i difficili rapporti con i mercanti d’arte, la predilezione per i volti e i ritratti (“L’UNIVERSO E’ TUTTO RACCHIUSO DENTRO A UN VOLTO”), l’ardente (bi)sogno di andare oltre la mera verosimiglianza per scavare “all’interno” e raggiungere l’essenza delle cose…Tutti elementi fondamentali per la comprensione del Modigliani artista che lo spettacolo coglie con puntualità, acuti spunti critici che tratteggiano i contorni di un genio immenso e disperato per il quale amore, arte, vita e bellezza diventano una cosa sola. Sullo sfondo, la Parigi d’inizio ‘900, forse il più grande crogiolo artistico della storia, un’epoca d’oro irripetibile che Modigliani ha coraggiosamente vissuto da indipendente restando sempre ai margini del Movimento, senza aderire a questa o a quella avanguardia, e mantenendo intatta, quindi, la propria identità artistica.
Ottimo Marco Bocci, che ci restituisce un Modigliani passionale, sognatore, poetico, orgoglioso della propria italianità e della propria unicità, ma anche infedele, autodistruttivo, fragile, insicuro, tenero e commovente nelle sue contraddizioni, nei suoi grandi slanci di generosità e nei suoi entusiasmi. Reggono bene il gioco anche le attrici (in particolare Giulia Carpaneto e Vera Dragone), il resto lo fanno le musiche di Ryuichi Sakamoto (si riconosce il celebre tema de Il tè nel deserto) e le ispirate scene di Gianluca Amodio.

Francesco Vignaroli


Scritto e diretto da Angelo Longoni
con: Marco Bocci, Giulia Carpaneto, Romina Mondello, Vera Dragone, Claudia Potenza

Ho cercato il Don Giovanni di Molière al Teatro Quirino di Roma, ma non l'ho trovato. Di Claudia Conte

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Teatro Quirino, Roma. Dal 2 al 14 febbraio 2016

Un virtuosismo attoriale quello di Alessandro Preziosi che ha tutti i presupposti per essere un Don Giovanni credibile, ma non li indirizza nella giusta direzione. Forse perché si è auto diretto? Probabilmente nelle mani di un sapiente regista il risultato sarebbe stato diverso.
Ottima la presenza scenica, ottima la tecnica ma tutto molto esteriorizzato, superficiale e tendente all'accademico, a tratti "gigionesco". Avrebbe voluto interpretare anche il ruolo di Sganarello, oltre che quello di Don Giovanni? Nando Paone, valido caratterista, non pienamente messo in luce.
Un Don Giovanni misogino più impegnato a torturare e schernirsi delle donne anziché, come si evince nel testo originale, cercare in ogni creatura di sesso femminile un nuovo universo da scoprire. La sua non è una passione incontenibile, ma un gioco patologico e macabro. Non è un ladro d'amore.
Bellissima l'idea degli ologrammi come soluzione scenografica, ma mi chiedo, quelle macchie di colore che si sciolgono nell'etere come inchiostro, cosa rappresentano? Gli stati d'animo del protagonista, le macchie del peccato dell'impavido conquistatore? O una mera citazione d'astrattismo d'avanguardia, Pollock seconda maniera?
Poca magia nelle luci.
Penso che il vero teatro debba conservare e proteggere quella verità scevra da contaminazioni narcisistiche.
Ripenso con nostalgia alle meravigliose messe in scena della  Comédie-Française o i Molière rappresentati da Strelher o dal grande regista francese Patrice Chereau.
Essere tradizionalisti non significa essere obsoleti o vecchi, ma conservare e proteggere e così eternare l'aspetto dionisiaco del teatro.
Perdonate la mia franchezza, ma quando si toccano testi universali come il Don Giovanni penso che si debba avere un rispetto ed una grande umiltà e avvalersi dell'ausilio di Maestri che conoscono la profondità dell'Assoluto.
In ogni caso è solo un mio parere a questa interpretazione del Don Giovanni della superstar Alessandro Preziosi! Non dovrebbe servire forse anche a questo una critica? A mettersi in discussione, in teatro come nella vita!
Basta con il buonismo imbonitore!

Claudia Conte


DON GIOVANNI
di Molière
traduzione e adattamento Tommaso Mattei
diretto e interpretato da Alessandro Preziosi
con Nando Paone e con Lucrezia Guidone, Barbara Giordano, Roberto Manzi
Daniele Paoloni, Daniela Vitale, Matteo Guma
scene Fabien Ilieu
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche Andrea Farri
luci Valerio Tiberi

supervisione artistica Alessandro Maggi

Romolo Valli, il fascino della parola. Di Maria Laura Loiacono

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Quando si pensa a Romolo Valli non lo si può non immaginare nella maestosa figura del (solo apparentemente) freddo “raisonneur” Leone Gala, che distrugge la propria realtà per poi ricostruirla, fedele all’idea che nella vita, come dice egli stesso,  bisogna “sapersi difendere”.
Ma Romolo Valli era certamente molto di più. Come dimenticare il meraviglioso volto angosciato dalla gelosia di Franco Venzi ne “L’amica delle mogli”, oppure l’incredibile personaggio del Padre ne “Il giardino dei Finzi Contini”, emblema del patimento consapevole di una situazione ormai giunta all’estremo.
Di Valli possiamo certamente ricordare tutto ciò, grazie alle registrazioni televisive ed ai film che vedono la sua partecipazione. Sicuramente di tutto il resto oggi non rimane traccia, se non attraverso gli articoli di giornale e le foto che lo ritraggono.
Tutto questo rischiava di restare nelle nebbie dell’ oblio, fino alla pubblicazione di un volume “Romolo Valli, l’attore che parla”, la biografia completa di Romolo Valli, pubblicato lo scorso anno dalla AG Book Publishing.  
Dopo tanti anni di silenzio su quest’attore, si era reso necessario ripercorrere la sua vita, ed è questo ciò è stato fatto, attraverso le sue stesse parole e le parole di chi lo ha conosciuto, insieme a commenti, riflessioni, analisi e descrizioni delle varie interpretazioni che offrono l’ immagine di chi è stato Valli.
Attraverso le parole delle recensioni e i vari commenti agli spettacoli, poi, il volume fornisce  una descrizione completa dello spettacolo e del lavoro d’attore di Valli al suo interno, e tratteggia l’immagine dei personaggi di quegli spettacoli che, ahimè, non avremo mai la fortuna di poter vedere in video, ma che resteranno per sempre impressi nella memoria di chi ha avuto la fortuna di assistervi. 
Di Valli ciò che colpisce, oltre alla sua figura sempre perfettamente inserita nel contesto scenico, è la parola. Ed è proprio la parola il centro focale di tutto il suo lavoro.
Estremamente convinto che la parola fosse importante per potersi raccontare, per poter parlare di sé, per potersi finanche ritrasmettere, egli sottolineava i pregi della parola e sulla  parola Valli concentrava il proprio lavoro teatrale  e la propria attenzione nella vita privata. Valli parlava, discuteva, e da grande affabulatore qual’era, affascinava i propri interlocutori.
Ma il genio di Valli non si fermava qui: certamente vi era in lui una capacità di guardare oltre i contemporanei orizzonti teatrali ed artistici, e prova ne è la sua decisione di proporre De Lullo alla regia di Gigi(spettacolo che ebbe il proprio trionfo nella stagione 1954-55). Il trasformismo, l’essenza multi sfaccettata  di questo grande artista si ravvisa non solo a teatro (era capace, sul palco, di enormi trasformazioni)  ma anche nella vita reale. Attore, giornalista, scrittore, regista, cronista, critico teatrale, Valli riusciva ad essere tutto questo, oltre ad essere amico, confidente, presenza costante e sempre attiva. Senza dimenticarsi, però,  di imperversare ironicamente su tutto.  Perché  Valli amava l’ironia e non solo ne faceva una delle sue migliori armi di “seduzione”, ma questa era una qualità che amava molto trovare nei propri amici e conoscenti.
E certamente di Valli non dobbiamo dimenticare la vena polemica, quella volta ad essere sempre costruttiva e mai distruttiva. Quella vena polemica che si riaffacciava ogni qualvolta Valli vedeva tradito, sminuito il proprio lavoro o i propri ideali. Attento e partecipe della vita sociale, formidabile talent scout dal fiuto eccezionale, attento a tutto e a tutti , sapeva essere anche distaccato quando ravvisava furbizia.
La sua voce calma e morbida,  che diventava a tratti vibrante, a tratti più marcata, era ammaliatrice del pubblico che  trascinava in un turbinio di emozioni tali da portare quasi la platea sul palco per vivere in prima persona insieme a lui lo spettacolo .
Egli era sempre pronto a mettersi al servizio del regista perché secondo la sua visione era proprio la figura del regista a guidare l’intera opera, ad avere la visione d’insieme e quindi le capacità per poter mandare avanti l’intero impianto dello spettacolo. Senza protagonismi, senza alcun timore di confrontarsi con grandi nomi dello spettacolo, ben conscio delle proprie enormi capacità,  ma con il desiderio invece, di favorire la collaborazione ed il lavoro di gruppo.
E poi il percorso più personale che lo vede protagonista dal 1974 in poi con una propria compagnia (che porta il suo nome) e che lo eleva ai gradini più alti della bravura. Ciò fa sì che Valli diventi  uno dei più grandi, se non il più grande attore della storia del Teatro italiano. Grande parte del merito va anche a De Lullo, che seppe portare Valli su un percorso sempre più volto al suo perfezionamento. Unico rammarico, resta quello di non aver visto Valli protagonista di grandi produzione cinematografiche. Restano a noi, però, piccoli ma meravigliosi ruoli da lui interpretati, come il padre de “Il giardino dei Finzi Contini” o il capo sezione di “Un borghese piccolo piccolo”. Valli ci manca, manca a tutti noi, manca il suo estro e la sua straordinaria e multisfaccettata figura. La sua assenza è un vuoto che resterà per sempre incolmabile.

Maria Laura Loiacono

La Traviata. Un climax discendente, dalla bellezza alla sua decadenza. Di Luca Benvenuti

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Teatro La Fenice, Venezia. Fino all’11 febbraio 2016  

Ogni volta che rivedo La Traviata di Robert Carsen, proposta ormai a ogni stagione dal Teatro La Fenice, ne scopro dettagli prima ignorati e mi concentro sugli interpreti del momento. L’orizzontalità pervade le monumentali scene di Patrick Kinmonth, impostate su diverse tonalità di verde, ed è evidenziata anche dalla scelta di disporre le masse corali sempre a ridosso della ribalta. Ho notato maggior erotismo nel balletto che accompagna il coro di gitane e matadores, attualizzati in cowgirls perizomate e cowboys in chaps, coerente con la riflessione sul corpo e merce portata avanti da Carsen. L’incontro tra Violetta e Germont avviene in una foresta ove le banconote volteggiano nell’aria come effimere farfalle sino a scendere copiose mentre il lancinante Amami, Alfredostrazia il cuore delle anime sensibili. Infatti, rammenta Carsen, è il denaro a cementare l’azione, sia esso ricavato per mantenere Alfredo, compenso per prestazioni sessuali, onorario medico dell’ultima visita alla poveretta, spirante nella stanza 1206 oramai disadorna. Solo una televisione rotta, simbolo d’una bellezza ormai spenta, apre la sempre attuale riflessione sulla riproducibilità dell’immagine, quanto le fotografie prodotte dall’Alfredo reporter. Il light design, curato dallo stesso regista e da Peter Van Praet, ammanta le atmosfere di luci via via più cupe e confondenti, in un progressivo mancar di forze.

Daniele Rustioni dirige l’orchestra veneziana, omogenea e compatta, restituendo una lettura originale e fuori dagli schemi. Rustioni, infatti, ripulisce Verdi di quell’effetto rustico che sovente si sente con altre direzioni: il ritmo ternario è alleggerito a favore di una ritrovata drammaticità sinfonica, fatta di respiri ampi, ma ben controllati; lancia i timpani a briglia sciolta in Amami, Alfredo e nel finale terzo, descrivendo ottimamente l’estremo sisma emotivo di Violetta e le tragiche conseguenze; esalta l’oboe, ricordandoci quanto nel Barocco fosse strumento obbligato di molte arie, nel finale secondo e nell’Addio del passato, ove gli archi addirittura echeggiano impercettibili. Sceglie inoltre tempi pertinenti, imprime un’ottima incisività nelle scene d’assieme e mantiene elevata la qualità musicale, persino durante le feste cortigiane, la banda fuori scena è per la prima volta nitida e ben udibile.

Francesca Dotto, giovane soprano trevigiano, dimostra di aver studiato e approfondito ancor di più il ruolo rispetto all’ultima volta in cui la sentii. La sua Violetta, grazie all’ottimo fraseggio, l’uso consapevole delle dinamiche e il magistrale controllo dell’acuto, è una delle interpretazioni migliori di oggi. Bellissimi i piani di Dite alla giovine, l’Addio del passato e lo sdegno dei vari momenti di rabbia contro il destino crudele. Man mano che la tragicità degli eventi prende piede, la voce disvela l’autentica predisposizione al melodramma, facendosi importante, pastosa e ricca di colori sempre diversi, adatti a ritrarre una donna veramente tormentata dal male fisico e sociale. Col tempo e ulteriore dedizione, Dotto potrà arricchire il personaggio con tutta quella serie di agilità ed espedienti che renderanno ancor più preziosa la sua interpretazione.

Mattia Lippi possiede voce interessante, intonata e dai bei colori, seppur riveli tracce di nasalità nella salita all’acuto. Alfredo narcisista il suo, più interessato a se stesso che all’amata, ma nel complesso credibile. Non lo è invece Elia Fabbian, Germont spaesato, giocato tutto sull’acuto stentoreo. Inamidato nel completo grigio, il baritono accenna movimenti minimi e svogliati che non restituiscono appieno il personaggio. Bene si disimpegnano Armando Gabba (Douphol), William Corrò (d’Obigny) e Mattia Denti (Grenvil). Afona la Flora di Elisabetta Martorana. Meno sfiatata del solito l’Annina di Sabrina Vianello, mentre rimane dimenticabile Gastone quello di Iorio Zennaro.

Di rilievo la prestazione del Coro, più convincente rispetto a occasioni passate.

Applausi convinti per tutti alla recita del 7 febbraio, in primis per Dotto che esce a raccogliere gli onori al termine del terzo atto, riprendendoseli di nuovo alla fine della passerella. Consensi calorosi pure per Rustioni, Lippi e Fabbian.

Luca Benvenuti


La Traviata
Melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio.
Personaggi e interpreti (primo cast):
Violetta Valéry: Francesca Dotto
Alfredo Germont: Matteo Lippi
Giorgio Germont: Elia Fabbian
Flora Bervoix: Elisabetta Martorana
Annina: Sabrina Vianello
Gastone: Iorio Zennaro
Il barone Douphol: Armando Gabba
Il dottor Grenvil: Mattia Denti
Il marchese d’Obigny: William Corrò

Maestro concertatore e direttore: Daniele Rustioni
Regia: Robert Carsen
Scene e costumi: Patrick Kinmonth
Light designer: Robert Carsen e Peter Van Praet

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti

Allestimento Teatro La Fenice

Intervista con Federica Carruba Toscano. Questo spettacolo mi ricorda che siamo tutti coinvolti. Di Paolo Leone

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Federica Carruba Toscano, giovane attrice palermitana, è un volto che sempre più si sta affermando nel panorama teatrale. Volto, a dire il vero, non sconosciuto a chi segue il teatro più autentico, quello che nasce dalle piccole compagnie e che spesso e volentieri si può ammirare negli spazi off o nei Festival come il Fringe. Non a caso, la Compagnia con cui Federica ha cominciato la sua scalata è Vuccirìa Teatro, impostasi al Roma Fringe Festival 2013 con  “Io, mai niente con nessuno avevo fatto”  miglior spettacolo, premio come miglior attore ad Enrico Sortino, nonché premio per il  miglior testo a Joele Anastasi. L’anno successivo, sempre con lo stesso spettacolo, hanno vinto il San Diego Fringe Festival, in California (coi sopratitoli in inglese). Nel 2014 Federica ricopre ruoli anche in Battuageper la regia di Anastasi (sempre con Vuccirìa Teatro), in Minchia Sig. Tenente di Antonio Grosso diretta da Nicola Pistoia, ne La distanza da qui di Neil LaBute per la regia di Marcello Cotugno e in questa stagione l’abbiamo rivista in Vicini di stalla, di Grosso, per la regia di Ninni Bruschetta. Ora è in scena con un bellissimo monologo, il primo della sua carriera, al Teatro Lo Spazio di Roma, Ogni volta che guardi il mare, scritto dalla giornalista Mirella Taranto, adattato e diretto da un grande del palcoscenico come Paolo Triestino. Testo ispirato alla vera storia di Lea Garofalo, uccisa dalla ‘ndrangheta nel 2009, a 35 anni, per mano del suo compagno Cosco. Di lei lo stesso Triestino ci dice: “Federica è un’attrice che mi è sempre piaciuta molto, ha grande talento. E’ una donna del Sud, con tutta la caparbietà e la voglia di non arrendersi mai che hanno le donne del Sud. Che nel suo piccolo cerca sempre di cambiare qualcosa, per quanto le è possibile. Tutti noi ci proviamo, facendo gli attori, facendo determinate scelte. In questo caso raccontando una storia vera, drammatica. Cerchiamo di migliorare la porzione di società che ci circonda”. “Federica crede molto in questo” – continua Triestino– “e poi mi piace molto lavorare con lei perché è una che si affida totalmente e, credimi, in queste prove l’ho messa sotto torchio! E ha tirato fuori una prova d’attrice davvero importante.”

Veniamo a lei. In scena sei Sara, personaggio che richiama Denise, la figlia di Lea Garofalo. Cosa ti ha colpito del testo di Mirella Taranto?

Leggendo Ogni volta che guardi il mare, sono rimasta colpita dalla sua capacità di essere consapevolmente empatica. E’ riuscita a raccontare con estrema precisione e senza mai cadere nel giudizio o nella morale, una storia che è allo stesso tempo intrisa profondamente della sua sensibilità di essere umano, oltre che del suo talento di scrittrice. Credo che sia questa la forza di un testo. Porre delle domande, insinuare dubbi, senza dare risposte spesso facili perché non consapevoli.

Oltre essere stata scelta dal regista Triestino, cosa ti ha convinta ad accettare questo ruolo?

Ho scelto di interpretare questo monologo, in parte sicuramente per la fiducia artistica che ho in Paolo, ma soprattutto perché sento che uno spettacolo come questo possa davvero invitare me per prima che sto in scena, ma anche il pubblico, a rimettere in discussione certe sicurezze e libertà che sbandieramo e di cui non siamo consapevoli. Sento che in un mondo in oggi tutto è un “link” a qualcos’altro, in cui sembriamo tutti molto “connessi” tra noi, la “rete” che pensiamo di essere non ha salvato Lea Garofalo. Questo spettacolo mi ricorda sempre che, come diceva De Andrè: “…anche se voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

Spettacolo che sta riscuotendo grandi consensi, già in estate ne hai avuto la conferma.  Come reagisce il pubblico, che sensazioni hai dal palco?

Posso ritenermi fortunata perché il pubblico, che io reputo parte attiva di ogni forma teatrale, restituisce spontaneamente una grande empatia alla storia di Lea e credo che questo sia un dono per me che sto in mezzo, che faccio da tramite tra la storia e chi la accoglie.

Federica, sei molto credibile anche in parti brillanti. Quali corde senti più tue?

Ti ringrazio per il complimento e per avermi seguita in spettacoli di vario genere. Ho avuto la fortuna, nella mia breve carriera, di poter già spaziare da un genere all’altro. Non credo nell’autodefinizione di un artista. O meglio, non mi pongo nella posizione di autodefinirmi o classificarmi, perché vedo l’arte come un mestiere fatto di competenze e perizie maturate nella ricerca costante e nell’ardimento necessario ad un attore per gettarsi nel non conosciuto. Ho il mio piccolo capanno degli attrezzi, che ho collezionato con la commedia, con la drammaturgia contemporanea e coi classici. Tutti ugualmente utili. Il mio impegno è utilizzarli tutti per non farli arrugginire e ovviamente crearne e cercarne sempre di nuovi.

Ringraziando Federica Carruba Toscano e Paolo Triestino, ricordiamo ai nostri lettori che lo spettacolo di cui è protagonista, Ogni volta che guardi il mare, rimarrà in scena al Teatro Lo Spazio di Roma fino al 21 febbraio.

Paolo Leone

“Ce lo chiede l’Europa”: una brillante commedia e il suo importante insegnamento. di Flavia Severin

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Teatro Sette, Via Benevento, 23 – Roma. Dal 9 al 21 febbraio 2016

Ieri sera al Teatro Sette di Roma ha fatto il suo debutto “Ce lo chiede l’Europa”,  una commedia brillante e originale che percorre la realizzazione di uno spettacolo per un bando stanziato dalla Comunità Europa.

Katia Mariani (Vanina Marini), regista, concorre per vincere il premio del bando che ammonta alla cospicua cifra di 100.000 €, impostando la sua rappresentazione teatrale e musicale sulla valorizzazione dell’Italia e le sue origini attraverso citazioni e scoperte di alcune personalità di spicco.
Purtroppo, però, a un’ora dallo spettacolo accade un fatto che stravolgerà la vita di tutti i personaggi sul palcoscenico: il maestro Albertazzi, che doveva essere il protagonista è rimasto bloccato a New York e non potrà più interpretare il suo ruolo.
La disperazione della giovane regista, fa sì che intervenga Gianni (Fabio Avaro), il barista del foyer del teatro, che coadiuvato dalla band dell’Ukulele composta da tre musicisti (Luca Sgamas, Fabrizio Sartini ed Emiliano Giuliano) la aiuterà a reinventare il copione dandogli una piega totalmente diversa e inaspettata.

E’ proprio nel cercare di aiutare Katia, che emergono le caratteristiche di Gianni, il suo passato un po’ scapestrato, i suoi misunderstandinge il suo animo di comico un po’ goliardico. E ancor più importante, emerge ciò che rende originale e geniale questo spettacolo. L’indole di Gianni, infatti, diventa, anche nella sua comicità, un modello per tutti noi. Nonostante le cadute nella sua vita si è sempre rialzato. Il suo motto è “Si riparte sempre”! Ed è questo che diventa il vero motore dello spettacolo: è infatti così che la regista trova l’ispirazione e la forza per asciugarsi le lacrime di sconforto per aver già perso in partenza in quanto abbandonata dal suo protagonista.

Con la forza di chi crede che “ci sia sempre una soluzione” Katia si imbarca in questa missione impossibile, coinvolgendo Gianni e la band dell’Ukulele presente al teatro proprio in quel momento. Quale grande occasione sarebbe per loro!

E con la musica che culla e accompagna tutti gli sketch e le risate per le trovate sempre più assurde di Gianni che sconvolgono Katia, il protagonista viene anche raggirato, in quanto antieuropeista incallito, cosa che non gli avrebbe fatto mai accettare il ruolo di attore sostitutivo. Il tempo scorre e l’improvvisata compagnia prosegue le sue prove accelerate, con il verace e indomabile Gianni che prende iniziative divertenti e allo stesso tempo azzardate, ma che Katia biasima in quanto troppo distanti dalle rigide regole imposte dal bando. Nel frattempo il commissario del Fondo Europeo per l’arte e la cultura che valuterà lo spettacolo, è arrivato e lo spettacolo deve iniziare.

L’originalità con cui ogni sketch si delinea è sorprendente. I personaggi di scienza, storia e cultura stessa vengono immortalati con scenette divertenti, come un evento calcio mediatico radiofonico in cui paesi diversi mettono in campo i loro personaggi letterari con le loro caratteristiche che gli permettono di vincere o perdere la partita, oppure l’inventore del telefono Antonio Meucci, che Gianni improvvisa in una telefonata di prova di un prototipo con una logorroica antipatica e saccente operatrice telefonica. E così via con citazioni letterarie e riferimenti storici alleggeriti con il suo tipico humour romano.   

Senza alcun dubbio se fossimo noi i giudici, lo spettacolo avrebbe sicuramente vinto il bando… ma come andrà a finire realmente? Lo vinceranno davvero oppure no? E cosa succederà ai nostri protagonisti?

Il colpo di scena finale lascia tutti piacevolmente sorpresi e con il sorriso e oltretutto viene ribadito il grande insegnamento firmato Gianni: “reinventarsi sempre, si riparte sempre, c’è sempre una soluzione”!

Flavia Severin


Scritto da: Fabio Avaro, Vanina Marini e Luca Sgamas.
Regia di Vanina Marini
Con: Fabio Avaro, Vanina Marini e la Banda dell’UKU (Fabrizio Sartini, Luca Sgamas e Emiliano Giuliano)
Disegno luci: Maximiliano Lumachi




MARISOL FLORENTINO, LA BELLA CARAIBICA COL SANGUE NELLE VENE. Di Alberto T.

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Sempre col sorriso sulle labbra, come si addice a una caraibica che ama il ballo, lo spettacolo, la luce dei riflettori e le sfilate di bellezza. Sempre in movimento, nei locali o in discoteca, perché “il ballo è passione e sensualità” e perché ogni donna “deve potersi sentire bella sempre, ma soprattutto deve sentirsi bella con se stessa”. Ecco chi è Marisol Florentino, originaria della Repubblica Dominicana, ormai da anni in Italia dove ha conquistato la platea televisiva grazie alla danza. E, in occasione della gran kermesse del Festival di Sanremo, un premio speciale nel corso delle tante manifestazioni in programma andrà a lei come soubrette del 2016. Ma non solo: da donna di ballo si è trasformata in donna di spettacolo e sabato 13 febbraio in occasione della festa degli innamorati, sarà lei l’organizzatrice-madrina delle selezione lombardia di Miss Over Europe, ospitata al Palace Restaurant di Cinisello Balsamo.

Una serata organizzata e condotta da Marisol Florentino, che è al tempo stesso…

Soubrette, ballerina, showgirl e… donna! Al mio fianco ci sarà il magistrale presentatore Leo Lionel e avremo ospite anche Antonio Panico, patron nazionale di Miss Over Europe nonché produttore televisivo. Ma non mancheranno personaggi del mondo dello spettacolo, giornalisti e personaggi dei fumetti. Sarà l’occasione per sentirsi Regine per una notte, verranno assegnate dieci fasce che daranno diritto alle vincitrici di accedere alle finali internazionali del mese di giugno.

In sostanza: un concorso per donne over e per chi vuole sentirsi bella.

Proprio così: avremo tre uscite, rispettivamente con abito elegante, prova di abilità e maschera di Carnevale. Non sarà valutata solo la bellezza, si guarderà il carattere e la capacità di conquistare la giuria.

La differenza sta proprio qui: sensualità e carattere…

Io sono arrivata dalla Repubblica Dominicana, sono sbarcata in Italia che ero poco più che una bambina, ho subito travolto tutti col ballo e la danza. Quella è la mia medicina: potersi esprimere in totale libertà.

E presto di Marisol Florentino si sono accorte anche le televisioni.

Ha lavorato nelle principali tv nazionali, come figurante in alcuni film, ha affiancato i conduttori nei programmi dedicati alla musica latina e lavoro tutt’ora in una trasmissione dedicata alle note caraibiche.

Un pizzico di sano esibizionismo ha fatto il resto…

Nel 2012 ho realizzato un calendario ed io, mamma con tre figli, sono spesso stata in lizza sul social network per far vedere che alla sua età si può ancora essere belle ed affascinanti. L

Qual è il tuo segreto?

Una vita quotidiana normale, assistente alla poltrona in uno studio dentistico non lontano da Milano, una donna felicemente innamorata del suo compagno e l’essere una mamma apprensiva e pure rigida. Piacere e volersi piacere non significa essere senza valori. Anzi, spesso i miei figli si arrabbiano per i limiti che pongo loro.

Cosa rappresenta per la tua vita il ballo?

Ballare è libertà e sensualità, un concetto lontano dal mostrare un seno o il sedere. La sensualità non la compri: o ce l’hai, o ti manca. E a me non manca...

Lo si nota in tv o per strada…

Mi vedo più bella rispetto a quando avevo vent’anni. Sono più consapevole di me stessa. La solarità e la simpatia mi hanno aiutata a maturare. Qualunque cosa mi metto addosso, non passa inosservata. Ma se devo scegliere, mi piace mostrare le gambe.

Dopo Miss Europe, dove vedremo Marisol Florentino?

Obiettivi importanti li ho già raggiunti. In tv ho lavorato anche al fianco di Vittorio Sgarbi o l’avvocato Carlo Taormina. Mi piacerebbe proseguire nella strada dello spettacolo.


Curata da Alberto T.

Uno spettacolo pieno di sfumature umane perché Nessun luogo è abbastanza lontano per ritrovare se stessi. Di Flavia Severin

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Teatro Argot Studio, Roma. Dal 5 al 21 febbraio 2016
Venerdì 5 Febbraio al Teatro Argot Studio di Via Natale del Grande 21 a Roma, ha fatto il suo debutto lo spettacolo Nessun luogo è lontano, scritto e interpretato dal regista e protagonista Giampiero Rappa (lo scrittore Mario Capaldini), con al seguito altri due attori molto validi e di talento come Valentina Cenni (la giornalista Anna Vulli) e Giuseppe Tantillo (Ronny, il nipote del protagonista).
La trama nasconde insidie e misteri. Anna, una giornalista competente e coraggiosa, appena tornata dall’Iraq, deve intervistare un (ormai) ex scrittore scorbutico e sociopatico che ha deciso di isolarsi dal mondo da tre anni, dopo aver rifiutato un premio letterario per motivi apparentemente sconosciuti.Il modo crudo e cinico con cui tratta la giornalista e con cui, piano piano e inconsapevolmente si scopre al pubblico, è impressionante. La lontananza volontaria dal mondo lo ha disumanizzato rendendolo privo di sentimenti e rispetto per il prossimo. Anna, però, tocca delle corde che sembrano risvegliare qualcosa di umano in Mario.
La svolta dello spettacolo avviene con l’imprevisto ingresso in scena del nipote dello scrittore, Ronny, un ragazzo problematico e impulsivo in piena crisi adolescenziale,che gli creerà l’ennesimo scompiglio emotivo già iniziato precedentemente dalla giornalista e che completerà il suo processo di espiazione.

Tutto lo spettacolo è imperniato del dramma che consuma e corrode sempre di più lo scrittore protagonista. Il suo nefasto orgoglio lo ha portato a isolarsi e a mettere una barriera invalicabile tra lui e il mondo, compresi i suoi familiari più stretti, cioè la sorella stessa, più volte citata e il nipote.

Il pubblico assistedunque alla definizione dei tre personaggi, dall’introspettività alla delineazione delle loro anime, in cui emergono tutte le loro sfumature umane a partire dalla rabbia recondita che trabocca, zampillando accuse e offese tra i personaggi.Sono infatti proprio le loro emozioni represse che li accomunano, facendoli vivere una tempesta emozionale sulla stessa barca caratterizzata da scontri ripetuti durante lo spettacolo.

In particolare, il percorso di Mario ricorda il Renzo manzoniano e la sua redenzione che parte dalle zone oscure della sua anima, e termina conla riscoperta della sua dimensione umana. Ilpersonaggio è drammatico ma qui è romantico allo stesso tempo. E’ un elemento distruttivo per se stesso e per gli altri in seconda istanza, comportando una perdita totale del sé.E se “Nei promessi Sposi” fa capolino la Provvidenza, qui è il ruolo della giornalista che diventa la chiave del suo risveglio affettivo.Lei rappresenta il risveglio della sua anima.

Finirà l’espiazione dei peccati e il suo purgatorio volontario nella sua baita sperduta nel nulla?
Finirà di testare fino in fondo la sua forza? Riuscirà davvero a toccare il fondo per poi risalire come Renzo?Anna lo definisce addirittura“un misantropo a tempo determinato”.

Le luci e le musiche seguono le oscillazioni e l’instabilità dell’umore negativo di Mario (“Ogni volta che s’arrabbia la luce se ne va.” Cit. Anna Vulli), sottolineando i suoi turbamenti e la tensione della sua solitudine statica.
Uno delle rappresentazioni teatrali più belle e complete con venature di un umorismo impegnato e un sarcasmo tagliente.
Commovente e toccante è il giusto spettacolo per chi vuole assistere a una performance di alta qualità sia per quanto riguarda gli attori che la trama.

Se non riusciste a vederlo entro il 21 febbraio a Roma, ecco le prossime date italiane:
25 Febbraio al Cine Teatro (Olbia)
26 Febbraio al Teatro Civico (Alghero)
27 Febbraio al Teatro San Bartolomeo (Meana Sardo)
4 Marzo al Teatro Cargo (Genova)

Flavia Severin

scritto e diretto da Giampiero Rappa
con Valentina Cenni, Giampiero Rappa, Giuseppe Tantillo
aiuto regia Alberto Basaluzzo   
musiche originali Stefano Bollani
scenografia Francesco Ghisu
costumi Lucia Mariani
voci registrate Alberto Basaluzzo e Alessandra Schiavoni
foto di scena e grafica Manuela Giusto


“Un uomo a metà”. Impotenza di vivere. Di Paolo Leone

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Roma, Teatro Brancaccino. Dall’11 al 14 e il 18 e il 19 febbraio 2016

Assistendo ad Un uomo a metà, in scena al Teatro Brancaccino dall’11 febbraio, non si fa fatica a comprendere i motivi per cui lo spettacolo ha vinto il Napoli Fringe Festival 2015. Quanto talento c’è nel teatro italiano e quanto difficile, paradossalmente, è la via per farsi conoscere ed apprezzare. Onore al merito quindi, innanzi tutto, agli spazi che ospitano nuova drammaturgia. “Un uomo a metà” è sì la storia di un uomo come tanti, tale Giuseppe Rossi, ma è anche un’affilata analisi, un taglio di luce sinistro sulla difficoltà di essere se stessi, ancor più torvo se, una volta tolto il coperchio, si scopre che quell’essenza compressa, in fin dei conti, non è tutto questo splendore. Se è vero, come dice il personaggio, interpretato straordinariamente da Gianluca Cesale, che nel mezzo c’è la mediocrità e non la virtù, l’epilogo della sua storia non è assolutamente consolatorio, anzi. Il teatro è l’arte del racconto, e questo spettacolo, che inizia quasi enigmaticamente, ha uno slancio narrativo che cattura anche il più distratto tra gli spettatori, grazie ad una regia brillante ma soprattutto grazie a Cesale, che in scena è capace di riempire totalmente lo spazio con la sua mimica eccezionale e con una recitazione che varia repentinamente registro. Ironico, drammatico, quasi comico, poi inquietante. Una grande prova d’attore. Il personaggio si svela pian piano. Rappresentante di articoli religiosi, famiglia modesta alle spalle, si fidanza con la figlia del padrone del più grande negozio romano di souvenir e oggettistica ecclesiale. Una svolta, sembra. Ma l’uomo ha un problema, non riesce ad avere rapporti con la “sua” donna. Anche lei  “a metà strada”, una via di mezzo come lui. Ci prova, non si capacita, sperimenta altre vie, senza risultato. Sarà nella notte del temuto addio al celibato, accompagnato dai vecchi compagni di squadra (che videro sfiorire il suo sogno di calciatore per un grave incidente diversi anni prima), che capirà di non essere quell’uomo sessualmente impotente che pensava, ma proprio da quel momento si svela la vera natura di Giuseppe Rossi. Ma anche quella di chi sta per sposare. Una vita compressa tra alibi di ogni tipo, rompe ogni freno e, si sa, con i freni rotti il viaggio è molto pericoloso. Il finale, costruito ad arte, farà capire il senso delle prime parole pronunciate dall’uomo: “non è vero che si muore sul colpo”. Un epilogo noir che lascia di stucco. Come l’intero impianto drammaturgico (di Giampaolo G. Rugo), il sapiente uso delle luci, la scena minimalista (di Francesca Cannavò) e la regia di Roberto Bonaventura. Poco più di un’ora, per raccontare un’intera vita, la caducità dei sogni e l’ipocrisia che ci circonda, di cui siamo parte integrante. Magistrale, amarissimo, dalle mille sfumature.  Da vedere e rivedere.

Paolo Leone


Produzione Castello di Sancio Panza e Fondazione Campania dei Festival presentano:

Un uomo a metà, di Giampaolo G. Rugo. Con Gianluca Cesale. Regia di Roberto Bonaventura. Scene e costumi di Francesca Cannavò; Amministrazione Marilisa Busà; foto di scena di Giuseppe Contarini. Spettacolo vincitore del Napoli Fringe Festival 2015

FESTIVAL EQUILIBRIO, 9-28 FEBBRAIO 2016: NUOVI PERCORSI DI DANZA. Di Rossella Traversa

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Il Festival della Nuova Danza “Equilibrio” in corso presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 9 al 28 febbraio 2016 ha aperto la sua dodicesima edizione con due spettacoli messi in scena da Aterballetto, Compagnia Cuenca/Lauro e Irene Russolillo (Premio Equilibrio 2014 come miglior interprete).
Le tre coreografie presentate da Aterballetto martedì 9 febbraio – Upper-East-Side, E-ink e L’eco dell’acqua – si sono caratterizzate per l’esplorazione delle dinamiche corpo-luogo in cui l’instabilità viene celebrata e poetizzata. L’unità del singolo contro il gruppo e assieme al gruppo risuona come criterio di discernimento e di forte musicalità. Tagliente e lineare, la scia dei corpi appare quasi sempre come un’annunciazione con evidente continuità. “E-ink” è un duetto sgusciante e claustrofobico in cui il testo coreografico appare senza vuoti semantici e la fisicità degli interpreti diventa lo spazio del contesto. “L’eco dell’acqua”, diretto da Philippe Kratz, è ispirato ad una lirica di Goethe (Gesang der Geister ṻber den Wassern, Canto degli spiriti sulle acque) e all’episodio dell’abbattimento di un aereo civile in Ucraina da parte di un missile militare. La scenografia qui si rende aerea e sontuosa per accogliere una danza che scende dall’alto di un telone nero imponente sotto cui – quasi si ergesse come un palazzo – alcuni danzatori sostengono altre danzatrici. La visione prospettica si verticalizza in maniera piacevolmente inquietante e la dimensione, per così dire, “orizzontale” è affidata alle parole tratte dalla lirica di Goethe e recitate da una danzatrice: “Anima umana, come somigli all’acqua! E tu, destino umano, come somigli al vento!”. L’abilità degli interpreti si basa sulla “scivolosità solida” del loro movimento e sulla capacità di raccontare atmosfere rarefatte su un severo dettato musicale.
“The Speech”, invece, è la performance portata in scena mercoledì 10 febbraio dalla coreografa e danzatrice Irene Russolillo e co-creata assieme all’artista argentina Lisi Estaras. Il pezzo della Russolillo ha saputo coinvolgere il pubblico nel gioco di mezzo tra l’esposizione intimistica ed enigmatica di piccole paure quotidiane e picchi di autostima autocelebrativi e un sound-design tenue, tendente al ronzio o al sussurro, da cameretta di una adolescente. L’accento psicologico della Russolillo risiede nella sua capacità di “ballare con la bocca e con gli occhi” e di coreografare perfino la popolare “Call me maybe” di Carly Rae Jepsen nel bel mezzo di questa autopsia autoironica di quel che resta della nostra immaginazione …. La figura di questa danzatrice emerge in tutta la sua intelligenza emotiva e ritmica che adotta ogni “debolezza” di un contesto artistico. La parte bassa e alta del corpo si sgancia dall’asse verticale sempre in congiunzione con una metamorfosi del volto e questo rende la coreografia un assalto alla volontà di sembrare “copione”.
“Zero” è il duetto presentato dalla Compagnia Cuenca/Lauro che si radica su intrecci di braccia e giri concentrici su terriccio. Palpabilità, ripetitività e pochi sguardi di coppia. Solo l’ultimo, sottolineato da un faro di luce e da un suono intenso e contundente, avvicina davvero i due danzatori (Elisabetta Lauro e César Augusto Cuenca Torres). Insieme si cerca e si tocca diversamente e la forma visiva non è più il semplice oggetto del desiderio del pubblico.


Rossella Traversa

IL SOGNO DI UNA VITA. Vite ed esistenze lontane ma legate da un'infanzia mai dimenticata. Foto originali di Ivan Selloni

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Al Teatro Ambra Garbatella di Roma va in scena “Il sogno di una vita”, scritto, diretto e interpretato da Alessandro Prete. Una pièce di due atti che racconta il romanzo di formazione di quattro amici che dopo aver condiviso la propria infanzia in un orfanotrofio si incontrano dopo anni in una sala d'ospedale dove uno di loro è ricoverato per una grave malattia.

“Stiamo riuscendo a vivere la nostra vita?”

Si chiedono i protagonisti mentre la malattia porta uno di essi verso la morte.

Una riflessione sulla vita e sull'esistenza di quattro uomini di fronte al capezzale di un amico malato che annulla tutte le loro differenze riportandoli dove tutto ebbe inizio.

Il regista gestisce con molta cura luci e elementi scenici costruendo un ambiente minimale e asettico che immerge gli attori in una sorta di dimensione atemporale.

Una sala d'ospedale che diventa un luogo dove confessare a se stessi a agli altri i propri dubbi e le proprie debolezze mettendo a nudo il proprio cuore e la propria coscienza.

Marco Vivio, Marco Stabile, Federico Perrotta e il regista Alessandro Prete sono gli interpreti di questo spettacolo prodotto dalla Uao Produzioni in scena al Teatro Ambra Garbatella fino a domenica 14 e da giovedì 18 a domenica 21 febbraio 2016.

Ivan Selloni










Vincenzo Carnì, dal trionfo a "Ti lascio una canzone" alla passione per la musica lirica. Intervista di Claudia Conte

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Foto Flavio Di Properzio/MVM Art Studio
Cari lettori del Corriere dello Spettacolo,
oggi in esclusiva intervisteremo per voi un giovane tenore. Il suo nome è Vincenzo Carnì, ha 17 anni ed ha origini calabresi. Sicuramente lo ricorderete come il vincitore della VII edizione del programma "Ti lascio una Canzone" condotto da Antonella Clerici! Ma Vincenzo ha molto altro da raccontarci...

Ciao Vincenzo, come e quando è nata in te la passione per la musica?

Il primo a scoprire la mia naturale inclinazione per il canto è stato mio padre, Francesco. Avevo soli cinque anni, e un giorno mi portò con lui in moto e iniziò a cantare un brano legato alle nostre terre. Ascoltandolo, ho intonato anche io le stesse note. Papà è rimasto letteralmente stupito dalla mia voce e ha voluto che anche la mamma sentisse quel coloredi voce, bianco ancora! Poi è stata la volta di mia madre a restare incantata dalla mia voce e poi le maestri d'asilo che mi assegnavano sempre il ruolo di protagonista nelle recite! Con il passare degli anni, la passione per il canto cresceva insieme a me, fino a che finalmente i miei mi fecero prendere lezioni di canto.

Come è avvenuto il passaggio dalla musica leggera alla musica lirica?

Foto Flavio Di Properzio/MVM Art Studio
La passione per la lirica nasce ascoltando i brani pop-lirici di Andrea Bocelli, che poi mi sono dilettato a cantare con discreti risultati, a tal punto che l'insegnante mi ha consigliato di percorrere questa strada. Queste erano le sue parole che, come un'eco, risuonano ancora nella mia mente: "Un ragazzo semplice, amante del bel canto e dotato di una voce dal timbro del tenore, particolarmente lirico-leggero con un volume potente".

Sei molto giovane e devi ancora terminare il tuo percorso di studi. Come riesci a conciliare lo studio scolastico con i concerti e il tuo iter di apprendimento musicale? Parlaci della tua formazione…

Attualmente frequento il quarto anno di scuola professionale con indirizzo aziendale, l'anno prossimo prenderò il diploma. Contemporaneamente studio canto lirico con il Maestro Marco Severin, solfeggio e pianoforte presso l'istituto Nazareth di Roma. Particolarmente importante per il mio percorso è stato l'incontro con il Maestro Zeffirelli, che mi ha consigliato di farmi seguire individualmente dalla Maestra Elizabeth Norberg-Schulz, soprano italo-norvegese di fama internazionale. Con lei sto intraprendendo un percorso incentrato sulla costruzione della vocalità classica. Grazie a lei, donna eccezionale che stimo molto, mi sono innamorato dell'Opera!

Quanto ti ha sostenuto la famiglia nel tuo percorso artistico?

Mi ritengo un ragazzo fortunato! La mia famiglia è stata ed è fondamentale per la mia crescita artistica. Le persone che hanno più creduto in me sono mio padre ed i miei zii, in particolare zio Luca e zio Giovanni, che mi sostengono e mi esortano a studiare e a perseverare!

Quanto è importante l'interpretazione nell'esecuzione di un brano di musica lirica? Ti piacerebbe prendere lezioni di recitazione?

Sicuramente la tecnica vocale è la base per sostenere un certo repertorio e per garantire la buona esecuzione di un brano. Nella musica lirica, a differenza che in quella leggera, lavora tutto il corpo, soprattutto il diaframma.  Quindi mi preme sottolineare l'importanza di uno studio costante e continuativo. Tuttavia la sola tecnica non basta, è necessario riuscire ad emozionare il pubblico e, per farlo, bisogna immedesimarsi nella parte e crederci. Prima di preparare un'aria, che sia da Camera o d'Opera, studio l'autore,  l'aria stessa ed il personaggio che vado ad interpretare. Credo che prenderò lezioni di recitazione, che rappresenterebbero un utile strumento per le mie interpretazioni.

Qual è il ricordo più bello riguardante l'esperienza su Rai1 nel programma campione di ascolti condotto da Antonella Clerici?

Foto Flavio Di Properzio/MVM Art Studio
Una sera per caso, guardando la tv, lessi l'annuncio su Rai1 per le selezioni di "Ti lascio una Canzone".  Ricordo l'emozione e la gioia del momento in cui mi comunicarono l'esito positivo dei provini! Tutte le settimane partivo con mio padre, direzione? Studi Rai del Foro Italico di Roma! I momenti emozionanti sono stati tanti, porterò sempre nel cuore l'incontro con artisti italiani e stranieri, la dolcezza di Antonella Clerici, la disciplina del Maestro Leonardo De Amicis e... il momento in cui ho alzato "il Trofeo"! E' stata un'esperienza arricchente, formativa, ma soprattutto illuminante... Dopo la vittoria ho capito che il canto sarebbe diventato il mio futuro!

Recentemente hai incontrato il Maestro Zeffirelli. Come è stato l'incontro? Che emozioni hai provato?

Avevo 16 anni quando fui ricevuto dal Maestro Zeffirelli. Un momento davvero indimenticabile! Ero emozionato ed anche un pò imbarazzato... stavo davanti ad un artista straordinario che, come tutti i grandi, riusciva ad apparire semplice nella sua profondità. Le sue parole sono state poche, ma intense: " Sei una voce vergine, che sta sbocciando! Continua a studiare e credici sempre! ".

Qual è il tuo "cavallo di battaglia"?

Al momento non ho un "cavallo di battaglia", anche se ci sono delle arie che amo particolarmente. "E lucevan le stelle" tratta da "La Tosca" di Giacomo Puccini, "Una furtiva lagrima" tratta da "L'Elisir d'amore" di Gaetano Donizetti e "Nessun dorma" tratto da "La Turandot" di Giacomo Puccini.

Hai un autore preferito?

Foto Flavio Di Properzio/MVM Art Studio
Al momento apprezzo molto Giuseppe Verdi perché le sue opere mi trasmettono forza, energia, volontà di conquista e dominio...

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Ovvio… Diventare un grande cantante lirico!

Quali sono i tuoi hobby?

Nel tempo libero mi dedico allo sport e alla pesca. Inoltre ho ereditato da mio padre la passione per i cani da pastore tedesco! Abbiamo una splendida coppia e un cucciolo appena arrivato, un incrocio di lupo alaskan malamute!

Grazie Vincenzo per questa splendida intervista ed in bocca al lupo per la tua carriera!


Curata da Claudia Conte

Pillole dal Festival di Sanremo - recensioni di tutte le serate. A cura di Carlotta d’Agostino

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1a Serata:

Il 66esimo Festival della canzone italiana parte con un ritmo lento dal punto di vista delle canzoni in gara, per lo più melodiche, ma per quanto riguarda gli ospiti non si risparmia: Elton John e Laura Pausini fra tutti animano l’Ariston ed emozionano i telespettatori, che contribuiscono al successo di share della trasmissione.
Una nota di merito va senza dubbio a Virginia Raffaele, calata nei panni di un’ironica e spiritosa Sabrina Ferilli, mentre più deludenti sono Gabriel Garko e Madalina Ghenea, tutti sul palco per affiancare un bravissimo Carlo Conti, sempre a suo agio davanti alle telecamere e mai in difficoltà.
Tra i brani presentati, positivi sono quello di Enrico Ruggeri, orecchiabile e accattivante, quello del duo Giovanni Caccamo e Deborah Iurato e “Un giorno mi dirai”, cantata dagli Stadio.
Complessi invece i pezzi di Noemi, Arisa e coinvolgente il rapper Rocco Hunt con la sua “Wake up”.

2a Serata:

La seconda serata del Festival di Sanremo comincia con la competizione delle Nuove Proposte, fra cui spicca senza dubbio la leggerezza e la freschezza del pezzo di Chiara dello Iacovo.
La gara dei big, poi, prosegue con un’elegante Dolcenera che, al pianoforte, esegue una canzone intensa, ricca e coinvolgente. L’Ariston e la sala stampa (ma sicuramente anche il pubblico a casa) si emozionano con Ezio Bosso, mentre si sprigiona divertimento ed entusiasmo con Eros Ramazzotti ed Ellie Goulding. Immancabile classe per la bella Nicole Kidman e risate assicurate con Nino Frassica, in un siparietto con Garko.
Virginia Raffaele sceglie di imitare - stupendamente - Carla Fracci e sorprendenti sono stati Elio e le storie tese, con un brano fatto solo di ritornelli: grande originalità e genialità in un pezzo, però, non sanremese.
Non male anche la canzone di Patty Pravo, che celebra i suoi 50 anni di carriera interpretando un testo di Zampaglione.

3a Serata:

La terza serata della 66esima edizione del Festival di Sanremo è interamente dedicata alle cover, all’interpretazione di brani celebri della musica italiana da parte dei 20 big in gara. Gli artisti si sono esibiti cantando a modo loro pezzi di Battisti, De Gregori, Pino Daniele, Loredana Bertè, riuscendo a coinvolgere sia il pubblico sia la sala stampa. I rapper Clementino e Rocco Hunt - che hanno presentato rispettivamente “Don Raffaè” di Fabrizio de Andrè e “Tu vuo' fa' l’americano"di Renato Carosone sono stati i più applauditi, ma una nota di merito va anche alla performance di Noemi, a quella di Valerio Scanu, di Dolcenera e di Francesca Michielin.
Tutti in piedi, poi, per i Pooh, attesissimi ospiti che hanno eseguito un medley dei loro maggiori successi.

4a Serata:

Alla finale delle Nuove proposte, oltre a Chiara dello Iacovo ed Ermal Meta, accedono anche Francesco Gabbani e Mahmood, ma ad aggiudicarsi la palma sarà Gabbani, con il brano “Amen”.
Gli ospiti che si susseguono sul palco sono diversi, da Enrico Brignano ad Elisa, passando per J Balvin, Rocco Papaleo ed Alessandro Gassmann, ma protagonista è sempre la musica, che si fa largo sul palco dell’Ariston e decreta i 15 finalisti.
I 20 Campioni si esibiscono con il proprio brano: il voto del pubblico pesa per il 40%, quello degli esperti per il 30% e quello della giuria demoscopica per il 30%. Combinando le percentuali delle prime due serate e della quarta, viene stilata una graduatoria di accesso alla finale secondo la quale saranno escluse le ultime cinque canzoni classificate. Solamente una potrà essere ripescata.
Al termine della diretta, a dover lasciare la competizione sono gli Zero Assoluto, i Bluvertigo, Neffa, i Dear Jack ed Irene Fornaciari.

5a Serata:

Gran finale sul palco del Teatro Ariston: il Festival è da considerarsi uno dei più seguiti degli ultimi anni, con alti picchi di share in tutte le serate. Complessivamente la conduzione è stata ottima, Carlo Conti ha presentato per il secondo anno consecutivo il Festival (e dovrebbe presentarlo anche il prossimo anno), Madalina Ghenea ha sfoggiato abiti meravigliosi, Garko ha tentato di dare il suo contributo al meglio e Virginia Raffaele è da considerarsi una vera e propria rivelazione, o conferma. Spontanea, divertente, mai banale o ripetitiva, ha indossato i panni di personaggi come Carla Fracci, Sabrina Ferilli, Belen Rodriguez (suo cavallo di battaglia) e Donatella Versace, mentre per la conclusione della kermesse si è mostrata se stessa, non deludendo nessuno.
Attraverso il televoto viene ripescata Irene Fornaciari che canta in coda alle esibizioni dei suoi colleghi.
Le canzoni più apprezzate, nonostante i tanti giovani talenti in gara, sembrerebbero essere quelle di veterani come Patty Pravo, gli Stadio ed Enrico Ruggeri, ma non mancano note positive per i brani di Annalisa, Clementino, Francesca Michielin, Giovanni Caccamo in duetto con Debora Iurato ed Arisa.
Ospiti del calibro di Renato Zero, il ballerino Roberto Bolle, Beppe Fiorello, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni e Cristina D’Avena allietano la serata, che sembra andare molto per le lunghe, ma senza annoiare.
I vincitori della 66esima edizione del Festival di Sanremo sono gli Stadio con la loro “Un giorno mi dirai”, seguiti da Francesca Michielin ed il duo Caccamo-Iurato.
Per molti sarà una classifica discutibile, però si sa… il Festival ha sempre fatto parlare di sé, ha sempre creato discussioni o pareri discordanti, ma non dimentichiamoci che in questi 66 anni ha regalato canzoni meravigliose per la musica italiana. Perché Sanremo è Sanremo e sarà sempre così!

Carlotta d’Agostino



CLASSIFICA FINALE


1      Stadio - Un giorno mi dirai

2      Francesca Michelin - Nessun grado di separazione   

3      Giovanni Caccamo e Deborah Iurato - Via da qui     

4      Enrico Ruggeri - Il primo amore non si scorda mai    

5      Lorenzo Fragola - Infinite volte 

6      Patty Pravo - Cieli immensi      

7      Clementino - Quando sono lontano  

8      Noemi - La borsa di una donna

9      Rocco Hunt - Wake Up    

10    Arisa - Guardando il cielo 

11    Annalisa - Il diluvio universale   

12    Elio e le Storie Tese - Vincere l'odio 

13    Valerio Scanu - Finalmente piove     

14    Alessio Bernabei - Noi siamo infinito 

15    Dolcenera - Ora o mai più (le cose cambiano)  


16    Irene Fornaciari- Blu

DIANA STEFANI, UNA BELLEZZA… CAPUT MUNDI. Intervista di Luca Bellini

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Orgogliosamente romana, orgogliosamente donna. Un personaggio che spopola sui social network, attiva più che mai nel sociale, moglie di un ex calciatore ed ex presidentessa di una società di calcio femminile, che rappresenta Roma nel campionato nazionale di serie A. Una donna che, a 52 anni di età, compiuti proprio in questi giorni (il 12 febbraio), non passa di certo inosservata. Sarà perché sorride sempre, sarà perché in ogni scatto c’è quel pizzico di malizia che male non fa. Sarà forse quello l’elisir della sua eterna giovinezza? Diana Stefani è ricercatissima su Twitter e su Facebook, non solo dove si parla di sport, ma soprattutto nelle pagine dedicate alle donne “over” che vogliono sentirsi ancora belle… ed ora, in particolare, sta gestendo un gruppo con l’intento di valorizzare la femminilità in tutte le sue forme. Alcuni ammiratori le hanno addirittura creato una fan page! Questo perché, all’attivo, ha svariate partecipazioni a concorsi dedicati al mondo delle “anta”, che le hanno fatto conquistare molti titoli, oltre che la pagina di un calendario glamour, e che le sono valsi una popolarità sterminata, con migliaia di follower che la seguono. Il motivo? Curiosità e… tanta semplicità.

Perché Diana Stefani è, innanzitutto, una lavoratrice e una sportiva…

Oltre che moglie! Da ben 24 anni sono sposata con Riccardo, ex calciatore, e come lui amo molto lo sport e sono tifosissima della Roma. Fin da piccola, ho sempre praticato sport, in particolare la danza… la mia passione era il rock acrobatico, grazie al quale ho anche vinto molte gare! Da oltre 20 anni, lavoro in un’azienda leader nella telefonia, oltre ad essere anche presidente di un’associazione (A.P.A.S. Onlus) che promuove iniziative culturali e sportive, con l’obiettivo di incentivare soprattutto i mondi giovanili.

Un curriculum che non finisce mai…

Mi piace moltissimo scrivere, ho realizzato svariati articoli per riviste e giornali, ho scritto poesie, racconti ed anche sceneggiature. Inoltre, sono anche appassionata di moda e fotografia. Sono stata presidente di una squadra di calcio femminile, ovviamente giallorossa, nella passata stagione, ed ora sono impegnata in un progetto più ampio, mirato a promuovere e sostenere la parità di diritti delle donne nello sport… Inoltre, sono una vera “attivista” in campo sociale! Infatti, sono spesso impegnata in iniziative di solidarietà e beneficenza… da un paio d’anni, sto portando avanti diverse iniziative contro la violenza sulle donne, aiutando tante case famiglia e associazioni di volontariato che operano con serietà e dedizione in tal senso e, con mia grande soddisfazione, ho ricevuto la nomina di Ambasciatrice del “Telefono Rosa”, una delle più grandi istituzioni a livello nazionale!

Eppure Diana Stefani oggi è soprattutto un personaggio… social.

Ho deciso di utilizzare tutti i mezzi mediatici che avevo a disposizione per lanciare dei messaggi, perché vorrei che l’immagine femminile sia valorizzata meglio e, quindi, difenderla da certi stereotipi che ci vengono costantemente propinati a livello mediatico! Ora la società fa leva solo su questo e tante donne ne diventano vittime… Non trovo giusto che, la bellezza femminile, sia sempre utilizzata in modo superficiale e troppo spesso relegata ad un ruolo riduttivo di “velina” senza personalità. Ritengo che sia più giusto che la donna sia invece rappresentata in modo più completo, cercando di restituirle intanto più rispetto e dignità e, quindi, allontanandoci il più possibile da quei canoni d’immagine patinata a cui siamo purtroppo abituati! Pertanto, utilizzando la mia personale esperienza, mi sono messa io stessa in gioco, proprio per dimostrare che noi donne possiamo essere apprezzate anche senza fare leva sul nostro corpo, ma anche e soprattutto sui contenuti ed i valori che abbiamo nella testa e nel cuore!

Cos’hanno le donne over rispetto alle diciottenni?

Diciamo che, a 40 anni, inizia sicuramente una fase molto bella per noi donne, in quanto si acquista una maturità diversa, che ci rende senza dubbio più complete, facendoci sentire più padrone di noi stesse e della nostra sensualità… Pertanto, posso dire che la bellezza e la sensualità di una donna non hanno età e, quindi, il mio messaggio, in realtà si rivolge a tutte le donne, sia le più mature, che spesso vivono nel timore di invecchiare, sia le più giovani, che sognano di diventare modelle e spesso rischiano fenomeni gravi, come l’anoressia.

Insomma, oltre al corpo c’è di più.

Già, non è importante solo l’aspetto fisico, come troppo spesso vogliono farci credere, che si può ostentare con o senza veli, ma soprattutto conta ciò che si è veramente, la nostra determinazione, l’autostima che possiamo avere, la dignità e la capacità di vivere ognuna la propria femminilità in modo naturale e spontaneo, grazie alla forza di credere sempre in noi stesse! Ecco, questa è un po’ la mia battaglia…

Il corpo può essere usato in mille modi, e sui social lo sguardo è diretto soprattutto lì.

L’occhio viene attratto, è normale, ma poi deve andare oltre… l’importante, a mio avviso, è catturare l’attenzione attraverso la propria immagine e, contestualmente, riuscire però anche ad esprimere un’emozione, trasmettendo qualcosa di più profondo e significativo… associando per esempio quell’immagine ad un valore che si intende evidenziare e difendere o ad un principio che si voglia valorizzare...  
Quando ti è nata l'idea di utilizzare la tua immagine?
Come tante altre ragazze, fare la modella è stato sempre il mio sogno, fin da piccolina, anche perché mia madre era una “creatrice di moda” e, quindi, io mi divertivo sempre ad indossare gli abiti che lei realizzava, le sue scarpe, le sue borse… rimirandomi sempre nello specchio! Del resto, ha prevalso anche la mia natura, visto che sono molto vanitosa… lo ammetto! Mio padre, però, era molto severo, perciò da ragazza non ho mai potuto esprimermi davvero in tal senso… è una cosa che ho riscoperto proprio di recente, in età più matura…

E i social network sono stati il volano naturale di questa aspirazione.

Beh, essendo presente su Facebook con l’intento di promuovere le mie molteplici attività culturali, fui notata e contattata per partecipare ad un concorso di bellezza per “OVER 40”… Fu un successo davvero inaspettato per me… e da lì ho iniziato il mio percorso, cercando di proporre un’immagine di donna diversa, senza età, più vera e naturale.

Nella vita quotidiana quanto sei esibizionista?

Direi che sono sempre me stessa! Non userei il termine “esibizionista” ma piuttosto “vanitosa”, perché io sono così! Quella che appare nei profili social è la stessa persona che io sono sempre, nel mio quotidiano!

Ti ha creato problemi o sottoposto a giudizi l’essere presente sui social in questo modo così massiccio?

No, tutt’altro! Mi ha permesso di dare voce ai miei principi e di promuoverli…. proprio perché, quello che faccio, ha sempre uno scopo ed un obiettivo ben precisi! Perciò, per quanto mi riguarda, l’unico giudizio che mi può interessare, è ovviamente quello di mio marito! Essendo un uomo intelligente, non solo approva le mie scelte, ma le condivide e le sostiene e, nonostante la sua proverbiale gelosia, mi ha comunque incoragiata e sostenuta sempre, fin dall’inizio!

Qual è il tuo limite in una foto?

Non amo l’eccesso… Io credo che la sensualità non vada mostrata scoprendosi, ma facendosi piuttosto scoprire! Il segreto sta tutto lì, nel riuscire ad unire insieme femminilità e seduzione, con gusto, stile, discrezione e sottile garbo, senza mostrare troppo il proprio corpo, ma lasciando sempre un alone di mistero… quel “vedo non vedo” che rende la donna sicuramente più intrigante!

Che differenza c’è fra femminilità e volgarità?

La femminilità, così come la sensualità, è qualcosa d’innato, che nasce innanzitutto dal sentirsi bene nel proprio “essere donna”… Un qualcosa di sottile e indefinibile che non necessariamente ha a che fare con il modo di vestirsi o tanto meno di svestirsi, né con l’età o con il modo di porsi, perché è un elemento che fa comunque parte della personalità! Non tutte le donne, infatti, sono femminili… proprio perché, magari, non amano sentirsi tali… La volgarità, invece, è quel limite sottile che si può oltrepassare, proprio se si ostenta in modo eccessivo la propria sensualità, perdendo la naturalezza, l’eleganza e l’autentico charme. Essere sexy è un modo di essere, di esprimere la propria natura: un po’ come un profumo, che si percepisce, ma che non ha nulla a che vedere con l’erotismo.

Cosa si può fare per essere sensuali?

Essere semplicemente sé stesse: con naturalezza, buon gusto e soprattutto senza ostentare troppo il proprio corpo e doversi necessariamente spogliare, come spesso accade. Secondo me, ogni donna può essere in grado di esaltare la propria sensualità e non deve assolutamenmte reprimerla, esprimendo liberamente la propria natura, lasciando trasparire la sua personalità ed il suo fascino con spontaneità, naturalezza e semplicità!

Non temi di essere giudicata per questa tua scelta?

Esattamente il contrario! Mi batto affinchè la donna sia libera di esprimersi, abbia il diritto di sentirsi “donna” e di indossare ciò che vuole, anche una minigonna o una scollatura, senza dover rischiare di essere sempre giudicata o, peggio ancora, andare incontro alla furia omicida dei propri partners (come purtroppo spesso accade)…

Fino a quando continuerai a metterti in gioco?


Finchè le forze e anche l’aspetto fisico, ovviamente, me lo consentaranno! Sono fiera di poter mettere a disposizione la mia immagine e di poter esprimere liberamente il mio “essere donna” per cercare di sovvertire certi pregiudizi e puntare il faro su un grave problema che affligge, purtroppo, la nostra società: quello della violenza che molte donne subiscono a causa di una cultura patriarcale ancora troppo dominante nel nostro Paese. Purtroppo, sempre più numerosi sono in Italia i casi di violenze famigliari, dove il femminicidio è l’atto estremo a cui, sempre più spesso, si arriva in modo del tutto inspiegabile e inaspettato… Perciò, io sto continuando la mia battaglia, anche nello sport, dove la donna non è riconosciuta come “professionista” al pari dei colleghi uomini… In occasione della festa della donna, proprio per dare un senso a questa ricorrenza, sto organizzando un piccolo torneo di calcio femminile, associandolo ad un concorso di bellezza, proprio per contrastare questo fenomeno e dire NO ad ogni forma di discriminazione e violenza.

Curata da Luca Bellini

IL GRANDE DITTATORE. Recensione di Paolo Leone

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Roma, Teatro Eliseo. Dal 16 febbraio al 6 marzo 2016

Certo, l’impatto che avrà prodotto nel 1940 il film di Charlie Chaplin, il suo primo film parlato, in piena guerra mondiale, dovette essere dirompente. Ancora non si conosceva tutto sull’orrore nazista, tanto che lo stesso Chaplin dichiarò in seguito che se avesse saputo, non avrebbe girato il film in quel modo. Tra censure di ogni tipo, soprattutto in Europa, la pellicola si affermò al punto di ottenere, nel 1941, cinque candidature al Premio Oscar. Dissacrante satira e parodia del nazismo, come di ogni regime dittatoriale, da qualche tempo quel capolavoro cinematografico è stato portato in teatro, dopo quasi cinque anni di trattative per ottenerne i diritti dalla famiglia Chaplin, grazie alla caparbietà di Massimo Venturiello ed il suo staff ed è ora in scena al Teatro Eliseo di Roma. L’adattamento al palcoscenico, curato dallo stesso attore, per la regia di Giuseppe Marini, ha l’intelligenza di mantenere vivo l’impianto drammaturgico originale, naturalmente in sottrazione rispetto al film e di non tradirne il messaggio. Venturiello, dall’alto della sua esperienza, sa bene che sarebbe stato disastroso imitare Chaplin, non avendone oltretutto la sua delicata, leggendaria leggerezza. 

I due personaggi da lui interpretati, il dittatore Adenoid Hynkel ed il barbiere ebreo suo sosia, sono resi in maniera convincente. Commedia musicale che percorre sentieri Brechtiani, come dichiarato dal regista, sin dalla scenografia che a me è piaciuta ma che ha diviso il pubblico. E se nel teatro di Brecht si impone lo “straniamento” come metodo per porre lo spettatore in modo critico e non emozionale di fronte alla scena, anche in questo spettacolo all’Eliseo non sono certo le emozioni a farla da padrone, quanto un’asettica osservazione dei fatti e dei simboli utilizzati, primo fra tutti la gigantesca macchina semovente al centro del palco, che muta sembianze fino a diventare una grande svastica intorno alla quale (ma anche sopra e dentro di essa) si svolgono tutti i quadri rappresentati. Per cui rimane sì in piedi la satira al potere ed alla sua teatralità, ma ne perde il coinvolgimento. Permane una sensazione algida, che non entusiasma. Se questo è voluto, è un obiettivo centrato, anche se discutibile.  Venturiello è molto abile nell’interpretazione del doppio ruolo, la bella voce di Tosca sottolinea drammaticamente i passaggi più delicati sulle musiche (brechtianamente stranianti anch’esse, di Mazzocchetti) e lei è divertente nel ruolo della moglie di Bonito Napoloni (un bravissimo Lalo Cibelli).  Questo adattamento teatrale è, ainoi, sempre attuale, in un momento in cui tanti rumori sinistri si rifanno vivi contro le libertà civili conquistate e  in cui l’ombra inquietante del potere, in modi ancor più subdoli, minaccia il futuro dell’uomo. Il celebre “discorso all’umanità” nel finale della commedia, è ancora oggi un dolcissimo invito alla speranza ed una riflessione tanto scontata quanto rivoluzionaria. Lo spettacolo è in scena fino al 6 marzo.

Paolo Leone


Roma, Teatro Eliseo. Dal 16 febbraio al 6 marzo 2016
Società per Attori presenta:
Il grande dittatore. Commedia musicale.
Adattamento di Massimo Venturiello. Regia di Giuseppe Marini e Massimo Venturiello.
Con  Massimo Venturiello e Tosca
E con: Lalo Cibelli, Camillo Grassi, Franco Silvestri, Sergio Mancinelli, Gennaro Cuomo, Pamela Scarponi, Nico Di Crescenzo, Alessandro Aiello.
Scene di Alessandro Chiti; Costumi di Sabrina Chiocchio; Coreografie di Daniela Schiavone; Light designer Umile Vaineri; Sound designer Antonio Lovato

Si ringrazia l’ufficio stampa del Teatro Eliseo nelle persone di Maria Letizia Maffei e Antonella Mucciaccio.

Trieste: Giovani interpreti giapponesi inaugurano la nuova rassegna del Teatro Verdi. Di Paola Pini

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Teatro Lirico Giuseppe Verdi, Trieste.  Domenica 14 febbraio 2016

Foto Fabio Parenzan
“Concerti e Aperitivi”: questo il nome della nuova rassegna musicale che la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste propone al pubblico nella sala del Ridotto “Victor de Sabata”. Il primo dei cinque appuntamenti si è svolto il pomeriggio di San Valentino con un programma prevalentemente leggero legato al tema dell’amore;  arie d’operetta, romanze e canzoni, sono state precedute da opere strumentali di maggior impegno, d’ascolto e d’esecuzione. Il concerto, diretto dal M°TakayukiYamasaki, è infatti iniziato con la “Serenata per archi in do maggiore op.48” di PëtrIl’ičČajkovskij, che ha lasciato spazio all’Ouverture da “EineNacht in Venedig” di Johann Strauss jr e, a seguire, a brani di Franz Lehàr, Luigi Arditi, Jacques Offenbach, Francesco Paolo Tosti, Enrico Cannio. Sono stati così presentati quattro giovani cantanti, vincitori, assieme al direttore Yamasaki, di borse di studio della Sawakami Foundation di Tokyo. L’istituzione giapponese che in collaborazione con la Fondazione Teatro Giuseppe Verdi sta permettendo loro di fare esperienza come interpreti nelle produzioni di un teatro italiano. Il tenore Motoharu Takei e i due soprano Namiko Kishi e Karouku Kambe erano già stati ascoltati a Trieste, avendo interpretato rispettivamente il ruolo di Flavio e di Clotilde in “Norma”, in scena fino al 6 febbraio scorso. Il mezzosoprano Yumeji Matsufuji ha invece debuttato in questo concerto pomeridiano, dalla sala con il tutto esaurito e con un pubblico che ha dimostrato il proprio apprezzamento per la scelta dei brani proposti e per l’esibizione dei cantanti, sancito da lunghi applausi alla fine di ogni brano. Pomeriggio piacevole, conclusosi con un gradito aperitivo offerto dal teatro agli spettatori.
Una rassegna che appare come un viaggio a tappe, un viaggio nel quale ogni concerto rappresenta una singola stazione, ognuna contraddistinta da temi specifici: l’amore del programma appena ascoltato e poi la danza del prossimo, per continuare con la musica da camera, il barocco e, finire con la coralità femminile. L’orchestra, quasi sempre presente, offrirà il suo apporto essenziale per veicolare un messaggio alto e agevole nello stesso tempo.
Foto Fabio Parenzan
I cinque giovani stranieri che si sono esibiti in questa occasione provengono tutti da un’unica nazione e  da una cultura tanto lontana da noi. Percorreranno assieme un percorso di formazione che si distingue da un semplice stage: si tratta di un gruppo di persone che sta vivendo un’esperienza comune di formazione artistica ricevendo, ma anche dando molto a chi si troverà in questi mesi a lavorare con loro. La loro presenza ha aggiunto qualcosa a questo concerto, coinvolgendo pubblico e orchestra soprattutto alla fine quando, alcuni di loro, lasciato con gran naturalezza il posto tradizionalmente dato ai solisti, si sono avvicinati molto al pubblico, rompendo così in modo molto spontaneo la tradizionale barriera che, invisibile, si erge fra chi si esibisce e chi sta a guardare.

Foto Fabio Parenzan
Il Teatro Verdi, con il suo Sovrintendente, Stefano Pace sta aprendo le sue porte al pubblico in modo semplice e accogliente e la cittadinanza risponde. Sta diventando una bella abitudine trovarsi in un teatro d’opera per ascoltare musica in modo informale e stare assieme, anche davanti ad un bicchiere.
Si attende ora il prossimo concerto: sabato 20 febbraio, alle ore 17, l’Orchestra del Teatro, diretta dal M° Tommaso Dionis, proporrà musiche di Shubert, Hindemith, Granados, Berio, Kodaly e Bartόk, tutte dedicate alla danza.

Paola Pini


Domenica 14 febbraio 2016 - ore 17.00
Direttore Takayuki Yamasaki
Solisti della Sawakami Foundation
Orchestra della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Programma:
PëtrIl’ičČajkovskij
Serenata per archi in do magg. op. 48
Johann Strauss jr
EineNacht in Venedig - Ouverture
Franz Lehàr
“Tu che m’hai preso il cuor” da Das Land desLächelns (Il paese del sorriso) - tenore MotoharuTakei
Luigi Arditi
Il Bacio
Jacques Offenbach
Lescontes d’Hoffmann, Barcarola - soprano NamikoKishi mezzosoprano YumejiMatsufuji
Francesco Paolo Tosti
Ideale - mezzosoprano YumejiMatsufuji
Sogno - soprano KaourkoKambe
Enrico Cannio
‘O surdato ‘nnamurato
KaourkoKambe, NamikoKishi, YumejiMatsufuji, MotoharuTakei

OGNI VOLTA CHE GUARDI IL MARE: storia di due donne tormentate dalla mafia. Di Flavia Severin

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Teatro Lo Spazio - Via Locri, 42/44, Roma. Dal 9 al 21 Febbraio 2016

OGNI VOLTA CHE GUARDI IL MAREè un monologo profondo e toccante dedicato a Lea Garofalo, donna forte e coraggiosa, uccisa dalla ‘ndrangheta per essersi opposta ai meccanismi mafiosi.
E’ stato proprio il suo compagno nel 2009 cheha spento in modo cruento e ancestrale la sua luce, la sua anima di donna e di mamma che ha protetto la figlia da un mondo sporco e senza scrupoli come quello della mafia. E così, all’età di 35 anni Lea muore, lasciando alla figlia Denise (nello spettacolo Sara) una lettera, eredità del suo personale messaggio di vita che le vuole lasciare.

Nella rappresentazione teatrale, Federica Carruba Toscano interpreta la figlia di Lea, esprimendoi suoi sentimenti a tratti con estrema delicatezza, a tratti con rabbia e il dolore per il suo passato tormentato e per il suo presente pieno di scheletri e nostalgie.
E’ inoltre il suo rapporto con la madre e la sua vita piena di fughe e di sacrifici per scappare e mettersi in salvo dalla perenne minaccia mafiosa che vengono fuori. L’attrice scopre le sue carte sfortunate sul palcoscenico, si scopre umana e fallibile, ci mostra i suoi sensi di colpa per non aver impedito alla madre di fidarsi di suo padre, colui che l’ha uccisa con una crudeltà immensa. Federica riesce a farci sentire il suo risentimento, come anche il suo amore per Lea, perché “la nostalgia è diventata più forte del dolore” tanto che il ricordo della sua risata è rimasto limpido e intatto nelle sue orecchie e che la fa sorridere e piangere allo stesso tempo. Un pezzo di lei è morto con la madre e non tornerà mai più, ma la forza di una donna che ha sofferto ed è ripetutamente caduta, ma che si è sempre rialzata e continua a farlo è una forza prorompente che fa di lei un modello di donna da seguire.

Anche la scenografia aiuta a immergersi nell’atmosfera calabrese e nello stato d’animo della protagonista: palcoscenico a sfondo blu, increspaturecomeil mare turchese della Calabria e profumo di forno acceso e di dolcealle arance, quelloche la madre le preparava a colazione con ingredienti semplici. Stavolta invece è lei stessa a prepararlosul palcoscenico per noi, come un rito per sentirsi a casa, come per ritornare alla sua infanzia, per dipingere il ritratto delle loro vite che si sono perseai margini del mondo alla ricerca di un nascondiglio sicuro.

Un’interpretazione dolce nel suo essere commuovente,ma tagliente come la ferita aperta di una figlia a cui è stata strappata la madre e a cui è stata rubata una vita felice alla luce del sole.
Un monologo scritto mettendo insieme, con estrema maestrìa, fatti accaduti, processi in Tribunale e condito da una variegatura di sentimenti umani che delineanoperfettamente le due donne, oggetto di questo spettacolo.

“Non desiderare mai che una spugna cancelli il passato perché non esistono solventi per il dolore. Puoi solo attraversarlo e capovolgerlo e, se puoi… cerca di salvare sempre quello che l’amore, qualunque amore, è stato in grado di farti fare.”

Lea Garofalo

Articolo di Flavia Severin


Dal 9 al 21 Febbraio 2016,Teatro Lo Spazio - Via Locri, 42/44, Roma
Diaghilev in collaborazione con Fiore & Germano 
di Mirella Taranto
con Federica Carruba Toscano
adattamento e regia Paolo Triestino
scene e costumi Lucrezia Farinella

luci Gabriele Boccacci

SHAKESPEARE’S WOMEN: LE DONNE DEL BARDO ARRIVANO A PIACENZA. Di Chiara Cataldo

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Teatro San Matteo, Piacenza. Martedì 16 febbraio 2016

PIACENZA - Ieri sera 16 Febbraio presso l’incantevole cornice del Teatro San Matteo di Piacenza è andato in scena “Shakespeare’s “Women”, uno spettacolo in lingua inglese e sottotitolato prodotto da Theatre of Eternal Values, che si prepara a toccare sei città con la tournée tra Italia e Svizzera.  Sul palco alcuni dei celebri personaggi femminili del Bardo, a 400 anni dalla morte: lo spirito di Shakespeare vagando sulle rive del Tamigi si imbatte in Ofelia, Lady Macbeth, Caterina D’Aragona, Titania e Giovanna D’Arco. Straordinario come queste cinque eroine, così diverse e altrettanto forti,  che  non si sono mai incontrate sulle pagine, formino un unità compatta e si giudichino  parlando di sé stesse, confidandosi come tra amiche in un gioco anch’esso letterario di riscrittura testuale. Queste“figlie di Shakespeare” sono delle figure verosimili che intrecciano le loro vite sfumando le proprie vicende personali come in un concept album: un tema, o anche una parola, richiama un’altra storia e un’altra protagonista, costruendo così un effetto a catena, un’ intreccio arguto e al contempo semplice. Tutte loro incarnano lo spirito femminile universale, sembrano fondersi in un coro unanime nelle ultime scene quando si dicono all’altezza degli uomini seppur differenti e quando scelgono di non perdere la propria indole per conformarsi con quella maschile. Lo spettacolo costituisce un viaggio mirabile tra ieri e oggi dove queste donne – che formano un gruppo disomogeneo, date le diverse età - ci raccontano di inconsueti innamoramenti, di omicidi efferati , di condanne a morte e ingiustizie subite, spesso reinterpretando i finali  e rivisitando le trame arcinote.
Shakespeare’s Women è un allestimento efficace, lineare, compatto: è un concentrato di un’ora appena in cui battute filologicamente ineccepibili – topico il momento di “Shall I compare thee to a summer’s day?”- si intervallano a rivisitazioni contemporanee, uno spettacolo in cui un solo attore diventa Shakespeare, Amleto e Oberon a seconda della scena.  Questa messinscena è tutta sostanza e nessuna scenografia, vista la presenza di tre sedie e nulla più sul palco: il tutto è un buon equilibrio tra parola e azione  musicato da un violoncello e da una chitarra.  

Chiara Cataldo


Interpreti:  Monia Giovannangeli, Alexandra Maitland Hume,Nicolette van T’hek, Adda Van Zanden, Deborah Eckman,VictoVertunni.                                                                                             
Sceneggiatura: MoniaGiovannangeli                                                                                                               Regia: Eric Loren                                                                                                             
Luci: Gunter Thurner e MaximVertunni                                                                                                                         
Costumi: Caterina Monaco e Ornella Bollani.                                              
Musiche: Leo Vertunni ed Emma Turley

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